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Anna Karina, indimenticabile donna-angelo del cinema francese

Di origine danese, arrivata in Francia nel 1958, Anna Karina inizia la sua carriera come modella per Pierre Cardin e Coco Chanel. Viene notata da Jean-Luc Godard, con il quale inizia un percorso cinematografico, che la vedrà come protagonista di otto suoi film e che sposa nel 1961: un sodalizio artistico e umano che dura fino al 1968. Il primo film è Le petit soldat del 1960 (uscito però solo nel 1963), dove interpreta la parte di Véronica Dreyer, una ex modella legata sentimentalmente a un terrorista di estrema destra. Grazie a Godard, diventa in quegli anni un’icona della Nouvelle Vague, l’immagine di una donna libera, fuori dagli schemi, inquieta e sognatrice, che si muove entro trame narrative continuamente stravolte dal regista francese, con echi che vanno dal noir al thriller, al road movie: impossibile non citare Questa è la mia vita (1962), Bande à part  (1964) e Il bandito delle 11 (1965). Ricopre importanti ruoli da protagonista anche in Suzanne Simonin, la religiosa (1966) di Jacques Rivette, tratto dal racconto di Diderot, una delle sue prove più intense, e in Lo straniero (1967) di Luchino Visconti. Dopo questo periodo molto attivo, la ritroviamo ancora in film di grande rilievo internazionale, seppur meno significativi all’interno del suo percorso artistico, come Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati e Roulette cinese (1976) di Rainer Werner Fassbinder. Personalità oltremodo versatile, nel 1973 fa il suo debutto alla regia con Vivre ensemble, nel quale è anche attrice.


Nell’incontro al Bergamo Film Meeting 2016, moderato da Olivier Séguret, Anna Karina, visibilmente emozionata, ci aveva confessato che la sua lunga storia (d’amore?) con il cinema non pensava potesse durare tanto.

D. Molti giovani ancora oggi dimostrano un enorme interesse per la Nouvelle Vague, un movimento testimone di un’epoca lontana ma anche della sua evoluzione nel corso degli anni. A cosa è dovuta questa attrazione, secondo lei?
R. È un modo di fare cinema che non è invecchiato, capace di conquistare emotivamente anche oggi e chissà per quanto tempo ancora.

D. Tra le cose di quel tempo che possono continuare a parlare ai giovani, c’è la censura, basti pensare ad esempio al caso di Suzanne Simonin, la religiosa: che cosa ci può dire di questa esperienza?
R. Ero felicissima di essere al fianco di Rivette, con cui ho lavorato prima al teatro e successivamente al cinema, sempre per La religieuse. Il film fu un successo sul grande schermo e il tema provocatorio suscitò uno scandalo enorme, tanto che Godard scrisse una lettera per scusarsi pubblicamente di quanto stesse accadendo.

D. Rimanendo su Rivette, recentemente scomparso (il 29 gennaio 2016, N.d.A.), che ricordo ha di lui?
R. Era una persona riservata e determinata, con una precisa idea di cinema: ne La religieuse c’è un insistito uso dei campi lunghi e non dei primi piani e questo andava un po’ contro a quanto ero abituata io. In Alto, basso, fragile mi chiese di portare oggetti personali sul set per ottenere una maggiore autenticità. “Mon Jacques” amava stare vicino agli attori.

D. Lei adesso che rapporto ha con il cinema di oggi? Godard era definito l’uomo-cinema, lei è rimasta cinefila?
R. Guardo parecchi film, senza fare una precisa selezione. Non ho un genere prediletto, vado dalle commedie musicali americane, ai prodotti più commerciali. Posso dire però che film come Star Wars mi rompono un po’…

D. Il mestiere dell’attrice: c’è stata una evoluzione in tutti questi anni? Secondo lei il rapporto con i media e la pubblicità ha un peso significativo?
R. Ai miei tempi era molto più complicato, anche tecnicamente, bisognava stare molto più attenti ai movimenti sul set, alla giusta messa a fuoco, alle esigenze di tutti. Si parlava parecchio prima e dopo il ciak, ci si prendevano tante pause, anche con Jean-Luc Godard. La qualità della recitazione è legata a quanto un attore o un’attrice senta la parte che deve interpretare. Le attrici di oggi fanno anche molta televisione e rischiano di bruciarsi in fretta. Io, se dovessi dire un nome, direi Marion Cotillard, la apprezzo molto. Per quanto riguarda i media, anche negli anni ’60 erano presenti, io stessa poi ho girato anche tante pubblicità.

D. Ha parlato della TV: le fiction cambiano il ruolo dell’attrice?
R. Oggi parecchi attori provenienti dal cinema recitano nelle serie televisive, che sono sempre di più e sempre presenti. Ma tutto quello che procede velocemente se ne va altrettanto velocemente. La Nouvelle Vague, che è lo spirito di Jean-Luc, è amata in tutto il mondo a distanza di tantissimi anni. In tanti odiavano i film di Godard all’epoca in cui uscirono, tipo Vivre sa vie, Bande à part, Pierrot le fou, ma oggi sono venerati da tutti.

D. Ha lavorato con registi con idee di cinema spesso opposte, Godard e Visconti, Rivette e Fassbinder. Qual è stato il segreto per ottenere successo con autori così diversi tra loro?
R. Io sono come sono, ascolto sempre il regista a costo di andare contro la mia volontà. Il regista è l’unico che ha il quadro completo sull’opera, il segreto è mettersi nelle sue mani.

D. Vivre ensemble è il suo esordio come regista: quando le è venuta voglia di fare un film?
R. Fu un film girato con pochissimi mezzi in quattro settimane, diretto e prodotto da me con qualche risparmio che avevo da parte. Esitavo a chiedere a grandi attori di interpretarlo, ma poi trovai comunque la fiducia per realizzarlo. Questa esperienza mi ha fatto capire le gioie, le delusioni e le complicazione insite nel ruolo del regista. Tutti gli attori dovrebbe passare almeno una volta dietro la macchina presa, ma anche tutti i registi dovrebbero provare a recitare almeno una volta.

«È stata l’icona della Nouvelle Vague, la donna-angelo (magari con la pistola) del Dolcestilnovo cinematografico, il primo piano degli anni ’60: cinema, pubblicità, moda e fumetti concentrati in un volto fatto di bianchi e neri, di lacrime e sorrisi». (Alberto Farassino)

  

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