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And Now Our Watch Has Ended | Il gran finale di Game of Thrones

What unites people? Armies? Gold? Flags?


Stories.


Il Gioco dei Troni è giunto alla sua conclusione. Scriverlo così, nero su bianco, fa quasi specie.


Per i fan più affezionati, per gli spettatori della prima ora e per tutti coloro che soltanto in tempi più recenti si sono lasciati rapire dagli insidiosi intrighi di Westeros, questa notte è stata messa la parola fine a un’epopea televisiva senza precedenti, rivelatasi capace, nell’arco di otto anni, di trasformare il fantasy politico da genere di nicchia a vero e proprio fenomeno culturale ad ampio raggio.


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Epilogo di una stagione a dir poco dibattuta, vittima di una sceneggiatura indubbiamente più debole (per usare un eufemismo) rispetto al passato della serie e di molteplici incongruenze narrative che hanno compromesso alcune risoluzioni e, inevitabilmente, fatto storcere il naso ai fan più duri e puri, The Iron Throne giunge a suggellare degnamente e con la giusta dose di epica malinconia i destini di tutti quei personaggi che, siamo sicuri, sarà difficile lasciare andare per sempre.



La puntata 8×05, The Bells, ci aveva resi spettatori obbligati dell’incendiaria mattanza di Kings Landing per mano di Daenerys, ufficialmente degenerata da “Distruttrice di Catene” a Mad Queen ubriaca di potere. Riprendendo le fila di tale devastazione, l’episodio definitivo si staglia su un rovinoso scenario post apocalittico sommerso dalle ceneri partorite dalla follia Targaryen: muti e raggelati, ci insinuiamo tra le macerie di una città resa cimitero, dalla quale riaffiorano i cadaveri di migliaia di innocenti.


Un incipit decisamente d’impatto e spettacolare, impreziosito ancor di più dallo straziante “ricongiungimento” tra Tyrion e i suoi amati/odiati fratelli: uniti nello stesso abbraccio che li ha visti venire al mondo, Jaime e Cersei riposeranno per sempre sotto le rovine della propria Casa. Insieme.


Come c’era da aspettarsi, The Iron Throne viene a costruirsi su due differenti blocchi narrativi: lo scontro finale che conduce al rovesciamento della neonata tirannia e la conseguente “restaurazione”. Peccato che a una prima parte ineccepibile sia dal punto di vista scenografico che evenemenziale (memorabile la chiusura del personaggio di Daenerys e la dissoluzione di quel maledetto Trono tanto bramato), faccia seguito una seconda eccessivamente affabile e in stridente contrasto con il maestoso dramma che la precede.



Scegliendo la strada della pacificazione accomodante, l’ultima puntata di Game of Thrones prende per mano lo spettatore e lo accompagna serenamente verso un finale sì dolceamaro, ma allo stesso tempo inevitabile.


When the snows fall and the white winds blow, the lone wolf dies but the pack survives



Game of Thrones si è aperto con la famiglia Stark e si chiude con la famiglia Stark: vero cuore pulsante dell’intera serie, sono loro i vincitori indiscussi del Gioco dei Troni. Bran, incarnazione della Storia e della Conoscenza, regnerà su Westeros quale sovrano (eletto) imparziale e magnanimo; Arya, indomabile e coraggioso spirito ribelle, è finalmente padrona del proprio destino e dell’unica cosa alla quale abbia mai veramente ambito: la propria libertà; Sansa, donna ormai indistruttibile ed emancipata, è incoronata Queen in the North, abbracciando orgogliosamente la nobile eredità di un padre e una madre ai quali, strada facendo, si è scoperta sempre più affine per caparbietà e integrità morale.


E infine, Jon Snow.


Figura cardine all’interno della serie (nonostante il carisma non esattamente prorompente), nelle ultime due stagioni il suo personaggio è stato vittima di un’involuzione a dir poco imperdonabile. Se si considera che le sue vere origini avrebbero dovuto costituire il plot twist più sconvolgente dell’intera saga, rimescolando drasticamente le carte in tavola e promettendo una ridefinizione radicale dell’eroe, la sostanziale ininfluenza di tale, “clamoroso” colpo di scena lascia parecchio avviliti.


Motivo per cui preferiamo rimanere affezionati a quello storico battesimo pronunciato da Ned nella lontana, prima stagione:


You are a Stark. You might not have my name, but you have my blood


Che lo si chiami Bastardo del Nord o Aegon Targaryen, Jon Snow è e sarà sempre sangue Stark.


Ma, allo stesso tempo, un figlio di nessuno.


Ecco perché il suo epilogo, chiusura di un cerchio che lo ha voluto ricondurre là dove la sua grande avventura ha avuto inizio, appare ai nostri occhi quanto di più coerente potesse accadere: outisider all’interno del branco, leader impavido ma riluttante nei confronti del potere, Jon Snow si lascia alle spalle un mondo nel quale non si è mai completamente identificato, scegliendo di intraprendere, forse per la prima volta in tutta la sua vita, la strada dell’Uomo Libero.


Si conclude così l’era di Game of Thrones.



Abbiamo pianto, riso e sofferto; abbiamo vissuto momenti da cardiopalma saltando (o svenendo) sul divano di casa; abbiamo dato ai nostri animali domestici (quando non ai figli…) i nomi dei protagonisti; abbiamo polemizzato, discusso (e sicuramente anche litigato animatamente) con amici e parenti; ci siamo lasciati intrappolare all’interno di una fittissima rete di teorie, speculazioni e scommesse: questa notte è giunta al termine un’avventura che ha fatto la storia tanto del piccolo schermo quanto di noi spettatori.


E nonostante tutti gli alti e bassi, nonostante le (dovute) polemiche e critiche, nonostante le (piccole o grandi) delusioni, è il caso di dirlo: è stato un viaggio indimenticabile.


And now our watch has ended


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