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David Mamet alla Festa di Roma: "Il mio mestiere è infastidire la gente"

Il regista, sceneggiatore e drammaturgo David Mamet ha regalato una lezione alla Festa del cinema di Roma commentando delle sequenze tratte da alcuni suoi lavori, sia come regista che solo come sceneggiatore. Scene che hanno fatto da leitmotiv a una conversazione sull’arte e sulla carriera del celebrato autore.

Iniziamo partendo da Phil Spector, film per la HBO che hai diretto oltre a scriverlo. 

Phil Spector fu incriminato per omicidio e ha subito un processo. Le scene con Helen Mirren dovevamo girarle con Bette Midler, che tra l’altro oggi vive in Italia, in Puglia, col marito. Spector non l’ho incontrato, ha chiesto di mantenere la sua privacy in carcere. Neanche Al Pacino ha voluto incontrarlo, perché lo Spector che avrebbe trovato in carcere è comunque molto distante da quello che avrebbe dovuto incarnare lui, che è lo Spector degli anni d’oro. Personalmente l’ho trovata un’osservazione molto acuta da parte di Al, un distinguo assai opportuno. Di un personaggio si scrivono le azioni, poi è un attore a dover riempire questa parte pragmatica con tutto il resto…

Tra gli attori, hai lavorato molto con Danny DeVito.

Una volta lui stava facendo Gandhi II, aveva una mutandona addosso e il volto colorato di marroncino, per me si tratta di un ricordo indimenticabile e spassosissimo. Nel mio film Il colpo doveva fare una scena con un coltello a serramanico, io gli lasciai intendere che doveva saperlo usare bene per forza di cose per via delle sue origini italiane, lui mi guardò e asserì ridendo sarcastico. Un altro attore di cui ho un ricordo forte sui miei set è Gene Hackman, che non è un carattere facile, come il mio, per cui lo rispetto molto.

E’ vero che hai scritto la sceneggiatura originale di Malcolm X?

No, non è vero. Ho scritto una versione di quella storia per il cinema, ma non c’entra con quella da cui poi è stato tratto il film, che è basato su un’altra sceneggiatura.

Come scrivi i tuoi celeberrimi dialoghi? 

Si lavora molto meglio con le immagini che non con il dialogo, oggigiorno. Spesso il dialogo viene usato come una stampella per spiegare, dichiarare le proprie intenzioni e quello che si andrà facendo man mano. Io faccio altro.

David, i tuoi film sembrano essere il prodotto di una scrittura eccellente, ma quanto spazio c’è per l’improvvisazione?

(Dopo una sonora risata che genera grande ilarità anche tra il pubblico per via della sua forza spropositata) Io ho lavorato con i più grandi attori al mondo, sono stato molto fortunato.  Ma nessun attore ha mai detto che voleva fare “B” se io avevo scritto “A”, d’altronde io so scrivere e loro sanno recitare, non certo viceversa.

E’ vero che il tuo primo grande ispiratore è stato Harold Pinter?

Si è trattato di un modello cui tendere, nel mio studio, per imparare il modo di fare le cose. Ispirarsi non significa fare qualcosa nello stesso modo di qualcun altro, ma avere un punto di riferimento ideale cui tendere.

Com’è stato lavorare con De Palma con Gli intoccabili?

(Ridendo, dopo aver visto la clip della celebre scena della carrozzina) Ma Ejzenstejn ha rubato una sequenza da questo film, che vergogna! Scherzi a parte, è nato tutto da Brian De Palma. Io adesso sto scrivendo un romanzo sulla Chicago degli anni ’20, i miei nonni conoscevano Al Capone, o almeno così loro sostenevano, fa parte del bagaglio culturale e identitario di noi che siamo di Chicago. Ho lavorato anche con Sean Connery per quel film. Lui riteneva di non essere stato abbastanza pagato per 007, anche se aveva fatto guadagnare a Barbara Broccoli quaranta miliardi. Una volta mentre parlavo con lui e con mia sorella che avevo dovuto lasciare all’altro capo del telefono per interloquire con Sean, lui si fece dare il suo numero e ci parlò per mezz’ora da Palma di Maiorca!

E’ vero che avresti dovuto fare un film con Nino Manfredi? 

Si trattava de Le cose cambiano, la storia di un calzolaio italiano identico a un terribile boss mafioso. Nel cast c’era il mio grande amico Joe Mantegna e volevo ci fosse anche Nino Manfredi, mi si disse che lui aveva letto la sceneggiatura e che avrebbe voluto farlo. Facemmo una magnifica colazione in uno splendo pomeriggio a Trastevere a Roma, un’incantevole pomeriggio italiano, con un sacco di vino. Pensai: “Voglio vivere anch’io così”, quel giorno. Poi però l’assistente di Manfredi mi disse che forse il personaggio avrebbe dovuto avere determinate caratteristiche se ad interpretarlo fosse stato  proprio lui, ma di fronte a una simile affermazione piuttosto stupida da parte di questo suo sottoposto che non rimaneva nei margini del suo ruolo io non ci ho visto più e gli ho risposto in maniera colorita. Alla fine Manfredi non ha più fatto il film…

Hai lavorato anche con Sidney Lumet, scrivendo per lui Il verdetto.

Nella mia sceneggiatura che si vedesse il verdetto non era previsto, ma lui lo volle inserire a tutti i costi. Questa cosa mi ricordò molto Hitchcock che una volta disse che se si gira un film su Parigi bisogna far vedere, di grazia, la Tour Eiffel. Tra l’altro Sidney aveva scelto la mia sceneggiatura rispetto ad un’altra analoga sullo stesso film.

Come ti è venuta l’idea del tuo Americani, da cui ha tratto un film James Foley? 

Ero a Chicago, dove ho fatto tantissimi lavori anche umili e non qualificati, e tra i tanti ho lavorato per degli anni e per 14 ore al giorno, per un’agenza immobiliare. Un’occupazione che mi ha permesso di vedere un sacco di cose interessanti ogni giorno. Lavoravo al telefono e si trattava di vendere delle cose.

Uno dei tuoi libri più famosi è Bambi contro Godzilla, contro Hollywood.

Per saper scrivere devi scrivere sempre, di continuo, di ciò ne sono fortemente convinto. Hollywood ha invece un’industria cinematografica che lavora molto sul thriller e sulla pornografia, poi ogni tanto c’è una riserva indiana di drammi duri e puri, di drammi reali. Io ho avuto fortuna di far parte di quel gruppo ristretto di drammi nel periodo in cui era possibile e più agevole rientrarvi.

In una tua intervista hai dichiarato che hai voluto completamente liberarti dell’atteggiamento politically correct, che consideri un disastro assoluto, un’autentica patologia dell’animo umano. 

Io non ero un bravo ragazzo quando ero giovane, non avevo talento e non sapevo concentrarmi su nulla. Pensavo che sarei finito in carcere,  o che sarei stato un senzatetto. Poi ho scoperto che sapevo scrivere dei diaoghi, che potevo guadagnarci addirittura e che soprattutto mi sarebbe servito ad uscire con le ragazze. Quello che faccio di mestiere è infastidire la gente. Una volta in uno spettacolo Off Broadway si è venuti alle mani e sono volati dei pugni perché toccare le convinzioni più profonde della gente ha sempre conseguenze destabilizzanti. Ce lo insegna Amleto, che perde questo tipo di confronto con la realtà allo stesso modo. Per quello che faccio, ad ogni modo, sono stato premiato e gratificato fin troppo.

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