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Disincanto: la nostra recensione della serie animata di Matt Groening per Netflix

Una principessa (Bean), un demone (Luci) e un elfo (…Elfo!). Non è l’inizio di una barzelletta, ma sono i protagonisti di Disincanto, la serie in dieci puntate (è già prevista una seconda stagione) che Matt Groening, il geniale creatore de I Simpson e Futurama, ha realizzato per Netflix. Fornendo così la sua personale e ovviamente irriverente versione del Medioevo, con una giovane erede al trono ubriacona e perdigiorno (“I compagni di bevute sono meglio delle damigelle e delle madri”) e due strambi amici.


Il risultato, però, si è rivelato decisamente al di sotto delle aspettative: solo le prime tre puntate, tirando le somme, sono all’altezza della cattiveria funambolica e corrosiva di Groening, mentre nelle altre porzioni narrative, spesso estenuanti e tese a girare a vuoto, c’è un vago senso di caos mal gestito, di sterilità diffusa. Come se, pur partendo da premesse tutt’altro che irrilevanti, la serie non disponesse di un materiale di fondo sufficiente per proseguire a dovere.


Disincanto 3


Anche il trio di fondo si riduce ben presto a una vaga e già vista declinazione del tema del diavoletto e dell’angioletto, del consigliare malefico e di quello buonissimo, con giusto qualche deriva splatterstick in più. Il mondo degli elfi purtroppo si limita ad aprire e chiudere la serie a mo’ di spezzata struttura ad anello, lasciando Elfo in balia di eventi tutt’altro che imprescindibili e smarrendo molto del proprio potenziale, incentrato sulla sua fuga da una terra in cui tutti sono perennemente felici, anche nelle situazioni più faticose (Cantare mentre si lavora è da malati mentali!”).


A partire dall’episodio 4, Strage alla festa del castello, a dispetto del titolo, comincia a subentrare in modo lampante e inequivocabile la stanca: le lacrime salate e le amare verità degli inizi lasciano il posto a un blando canovaccio di avventure medievali, come lo spettatore più scafato ne avrà già viste e digerite a bizzeffe, anche e soprattutto per via letteraria.


Disincanto 2


Nell’episodio 6, Paludi e cerimonie (nomen omen), l’impasse si fa definitivamente senza ritorno, con una Bean nascosta e aggrappata sul tetto che cade dal candelabro e suo padre, sovrano iracondo e insopportabile,Re Zøg (Zurg di Toy Story anyone?), che cerca di evitare che i commensali ci facciano caso, bollandola come l’ambasciatore nudo di turno.


A essere tragicamente denudata, in compenso (oltre al re e alle sue miserie di padre e governante), è solo l’esilità del disegno di Disincanto, perché le battute tutte uguali abbondano e dice bene un boia a un certo punto, in un colpo di coda di autoironia sintomatica: Sentirete tutte le battute migliori nei primi quindici minuti, poi non resta altro che la tragedia umana”. Ci si limita insomma a un situazionismo di maniera, senza lasciare tracce significative e avviandosi al nadir di una svolta sentimentale non irresistibile, già ampiamente acquisita e piuttosto controproducente e discutibile.


Rimane allora l’amaro in bocca dell’occasione persa, nonostante i bei titoli di coda sulle note memorabili del sempre bravo Mark Mothersbaugh, già collaboratore di fiducia di Wes Anderson e musicista dei Devo, tra parentesi canterine e oniriche completamente a vuoto e una dolce furia amorosa che fa prepotentemente a pugni col tono della serie.


Disincanto 1


La cattiveria si disinnesca, l’avventura, già di suo scialba, si impigrisce e i limiti della riflessione sull’immortalità, ma anche di quella sull’acquisizione necessaria di una tristezza da incorporare (Groening non è la Pixar di Inside Out, dopotutto, quindi non ha davvero senso provare ad agire sullo stesso terreno) diventano gli stessi dell’intero arco narrativo. Si preferisce, alla fine della fiera, una piccola vita a una grande morte, la melassa a buon mercato a una rigenerante ondata di perfidia e malevolenza. Un’occasione persa, un incantesimo spezzato prima ancora di cominciare a pungere e ammaliare.


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