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La nostra intervista a Michele Braga, candidato al David di Donatello 2019 per la colonna sonora di "Dogman"

Le 15  nomination per la prossima edizione del David di Donatello non sorprendono chi ha visto Dogman, l’ultimo capolavoro di Matteo Garrone, seguito dal collega Mario Martone, 13 candidature con Capri Revolution e a pari merito da Luca Guadagnino con Chiamami col tuo nome e Paolo Sorrentino con Loro.

Abbiamo intervistato Michele Braga, candidato al David di Donatello per la musica che accompagna le drammatiche vicende del “canaro”.

Nominato allo stesso premio e al Nastro d’argento per il pluripremiato Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, ha ottenuto il Ciak d’oro nel 2016 per quest’ultima colonna sonora, e assai di recente anche il Premio Migliori Musiche al Festival di Spello 2019 per In viaggio con Adele di Capitani.

Parliamo di Dogman: Garrone pensava già alle sequenze immaginando anche la musica o questa è venuta dopo aver pensato alle scelte visive?

Il film ha avuto una gestazione particolare: Garrone, d’accordo con i suoi collaboratori, non era assolutamente convinto di inserire la musica, ma sentiva che qualcosa mancava. Mi ha chiamato e ci siamo consultati sulla possibilità di farlo da un certo punto in poi rispettando fino in fondo la natura del film.

Quando io sono arrivato il film era già montato, mancava soltanto una scena. C’è stata una proiezione a cui io sono stato invitato con altri addetti ai lavori, siamo rimasti a parlare e abbiamo deciso di provare a inserire la musica da un certo punto in poi. Abbiamo lavorato due settimane in tutto.

Il mio primo approccio alla colonna sonora è stato sulle basse frequenze, pensavo a qualcosa di ossessivo, all’ossessione di Marcello, il protagonista; in seguito Matteo mi ha trasmesso a fondo l’idea del film e il preciso intento di non spettacolarizzare la violenza, che non ne costituiva l’ingrediente principale ma era solo funzionale alla storia e comunque ridotta rispetto alla vicenda reale:  Garrone, come ha spiegato in varie interviste,  voleva evitare che si andasse al cinema per appagare la morbosità di una violenza splatter nello scenario romano, un rischio effettivo  di fronte ai primi trailer per chi avesse in mente il fatto di cronaca.

Ho maturato l’idea che avremmo dovuto musicare esclusivamente il protagonista e in modo più leggero il suo mutamento nell’arco narrativo della storia: la musica avrebbe dovuto essere una sorta di parte scenografica che raccontasse la dolcezza di Marcello.

Ho ricercato suoni che richiamassero il mondo interiore di Marcello anche nel rapporto con sua figlia. Nella sequenza dell’immersione in mare, la musica si insinua in maniera naturale, senza che ce ne si accorga, come se venisse dalle bolle dell’acqua. Anche nel resto della storia, se tu togli la musica ne senti la mancanza ma se c’è non te ne accorgi”.

Cosa distingue per te la composizione di una colonna sonora da un concerto concepito come un’opera d’arte a sé stante?

Tutto. La colonna sonora è una sorta di artigianato alto, non è concepita per vivere di vita propria, che non significa che non la si possa riascoltare indipendentemente dal film appassionandosene, ma personalmente ho bisogno del film per scrivere quel tipo di musica.

Ritieni che scrivere per un film sia più o meno complesso che comporre secondo il proprio estro?

C’è una difficoltà tecnica, nel senso che bisogna seguire delle immagini, ma sono due cose poco paragonabili, completamente differenti.

Se fossi un regista quale qualità cercheresti in un compositore?

Lo cercherei aperto, curioso, capace di mettersi in discussione. La musica deve essere al servizio del film, non il contrario. Quando si esce da un cinema dicendo che il film non è stato un granché ma era bella la colonna sonora significa che qualcosa non ha funzionato.

Interagisci con il regista? Cosa gli domandi?

Moltissimo. Cerco innanzi tutto di capirne le inclinazioni, ci sono ad esempio strumenti che alcuni registi non amano, certi tipi di timbriche, una marimba o una celesta ad esempio. Se la musica non risponde al gusto del regista, incredibilmente non funziona applicata alle immagini del loro film: si deve creare un’alchimia. Chi compone musica deve portare la propria esperienza e visione del film, fondamentali perché il regista vuole sempre sapere cosa gli proponi, ma al tempo stesso devi saper essere il suo braccio armato. Quasi mai l’idea iniziale è quella giusta: lo scambio è essenziale per cogliere l’idea del regista e raccontarla in musica; e questa non segue un percorso lineare, non va da A a B, il compositore aiuta a svelarne un sottotesto: perché un personaggio sta agendo in un certo modo ad esempio o cosa succederà e perché, e può farlo solo se c’è una dialettica col regista. Chi compone ha il potere di veicolare associazioni, significati ai quali magari non si penserebbe se la musica non ci fosse.

Quali sono per te le differenze tra la colonna sonora di un film e di una serie tv?

Nel cinema, ed in particolare in quello d’autore, l’approccio è solitamente artistico, si fa riferimento quasi soltanto al regista, si condivide un percorso emotivo e creativo vivendo la realizzazione dell’opera in un modo molto intenso. Fermo restando il lavoro creativo nella realizzazione delle musiche, la serie costituisce invece un lavoro più “ industriale”. Le composizioni hanno un iter di approvazione più complesso, poiché i temi devono essere approvati da regista, produzione e rete; in ogni caso da qualche anno, abbiamo avuto modo di apprezzare un maggiore spazio per la sperimentazione musicale e più libertà d’espressione creativa anche nell’ambito delle serie tv.

Vedi film per diletto?

Io ho tre figli, a casa sono tutti cinefili, ora che le due femmine sono cresciute vediamo insieme film e serie tv; quando posso amo vedere film d’autore da solo o con mia moglie Lidia. Il tempo per andare al cinema non è molto, ma sono giurato ai David di Donatello e questo mi permette di vederne comunque.

Chi sono gli “eroi del tuo tempio?

Non sono compositori per il cinema, pur amando molto i celebri John Williams, Morricone, Alexandre Desplat, Hans Zimmer. Apprezzo particolarmente il lavoro di Jonny Greenwood, Il chitarrista dei Radiohead, che ogni tanto si presta alla musica per immagini, ha lavorato molto con Paul Thomas Anderson, ne “Il petroliere”, “The Master” e “Il vizio di forma” e l’ultimo “Il filo nascosto”. Mi piace il suo approccio moderno, la sua musica può star solo con quel film, si vede che c’è una ricerca, si vede che siamo ben lontani dai cliché. Tu senti un’ora di musica e capisci che altrettanta ne è stata scritta e cestinata per giungere ad un obiettivo specifico. Poi ovviamente Stravinskij, Debussy e Prokofiev; amo molto anche John Adams, Messiaen e Britten.

Ci sono altre attività nella tua vita in cui ritieni di esprimere te stesso tanto quanto nel comporre?

Nel ruolo di genitore: più di ogni cosa cerco comunicazione con i miei figli, anche se con la consapevolezza che tutto quanto si dice o si fa avrà su di loro delle conseguenze; come nei film sui viaggi nel tempo, semplicemente spostare un oggetto può avere sul futuro qualunque tipo di effetto.

L’intensità emotiva di una scena la rende più o meno facile da mettere in musica?

Se una scena ti coinvolge molto emotivamente può sembrare più semplice da mettere in musica; in realtà può indurti a strafare o cadere nei cliché: non sempre la spontaneità emotiva ti porta a comporre la musica che meglio si presta alla scena di un film. Scrivere significa spesso cestinare, perché spesso la prima impressione è anche la più ovvia.

Con quale regista ti sei trovato meglio?

Non te lo dirò mai.

Foto di Piergiorgio Pirrone

Intervista di Maria Palombella

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