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Profondo nero: Dario Argento incontra Dylan Dog, per indagare incubi, donne, erotismo e mistero

“Siamo in due, la mia parte oscura e io.”

(Dario Argento)

Profondo nero, il numero n° 383 di Dylan Dog arrivato in edicola da qualche settimana, segna l’incontro storico tra l’Indagatore dell’Incubo e il maestro dell’horror Dario Argento, che ha ideato la storia dal titolo, così emblematico e direttamente evocativo di uno dei titoli di maggior successo di Argento, ovvero Profondo rosso. Stefano Piani, amico e collaboratore di Argento da molti anni, ha scritto insieme a lui la sceneggiatura del numero in questione, in cui, come ricorda nella sua introduzione Roberto Recchioni, celebre firma delle tavole di Dylan Dog, il motivo ispiratore del regista di Suspiria era quello di “raccontare le cose assurde che abbiamo dentro di noi, la bellezza, ma anche la bruttezza degli uomini”. Per tacere dell’attrazione, inquietante e ambivalente, della superficie e delle sue implicazioni. 

Tale dichiarazione d’intenti, nella sua apparente, lapalissiana ovvietà, a pensarci bene è il cuore di tutto il cinema del regista, manicheo ed effettistico per vocazione e per intima necessità, ancorato a contrasti profondi, per l’appunto, e sensoriali. A lampi d’ispirazione smontabili e rimontabili, perché d’altronde, come ribadisce ancora Recchioni in apertura citando Eco, “l’essere sgangheratili è proprietà dei capolavori”. Ed è allora un piacere ritrovare il passo e la tattilità degli incubi argentiani (da troppo tempo sonnacchiosi al cinema), che dall’argento vivo avevano anche il nitore liscio e sensuale, nonché l’ambiguità affilata e melliflua, tra le tavole di questo numero di Dylan Dog. Con in più, a impreziosire, i disegni di Corrado Roi, tra i più amati disegnatori del personaggio (se guardate l’immagine in copertina, sembra quasi di stringere tra le mani un Francis Bacon).

Ma anche colui che “ha meglio interpretato l’anima oscura, sensuale, romantica e perversa del personaggio. Semplicemente, l’unica scelta possibile per illustrare la storia scritta da Dario e Stefano” (ancora Recchioni). Un quartetto di aggettivi perfettamente calato dentro una storia di figure femminili da brividi e giganteggianti (saranno così anche quelle del Suspiria di Luca Guadagnino che vedremo a Venezia 75?), dall’andamento particolarmente erotico e cinematografico. Con un ponte tra Warburgh Castle del 2006 e la Londra del 2018, tra raffinatezza estetica e cinefilia alimentare, perfino basica e bassamente commerciale: 2006 e 2018, non a caso, sono icasticamente rappresentati dal Il codice Da Vinci da un lato e dalla saga delle Cinquanta Sfumature dall’altro, con addirittura Secretary con Maggie Gyllenhaal e James Spader a fare da filo conduttore alto e punto di contatto impossibile e indie.

L’arco temporale di questi dodici anni, tuttavia, vive e respira soprattutto attraverso una fantasmatica vena horror che ben si sposa con l’investigazione tipica di Dylan Dog. C’è dentro tutta la tensione espressionista e figurativa della donna come oracolo elusivo, cara ad Argento fin dalla notte dei tempi e applicabile, come pura essenza, alle traiettorie tanto delle lame e dei coltelli quanto a quelle delle curve dei corpi femminili, rappresentati in tutta la loro dirompente carnalità eppure recisi, trasfigurati, infilzati. Un esercizio di stile in virtù del quale, anche in questo caso, il sesso è sempre raddoppiamento fantasmatico, incursione metafisica e chissà che altro, anche e soprattutto attraverso la frammentazione selvaggia e la scomposizione cubista del dettaglio (difficile immaginare uno “storyboard” più alla Dario Argento delle pagine allegate qui sotto?). 

Ma Profondo nero non si ferma qui: affronta i paradossi struggenti e feroci della nobiltà di sangue (“Mal giova il lustre sangue ad animo che langue”, diceva Giuseppe Parini, anch’egli espressamente citato, al colmo della malinconia), la disabilità come inibizione sociale e dunque anche sessuale (la società, di fatto, considera i disabili asessuati), per non parlare del passaggio, assai difettoso di romanticismo e nostalgia, dalla vecchia memory card della Playstation al Cloud odierno dei sistemi iOS degli smartphone (di mezzo c’è ovviamente Groucho). E ancora: la mitologia del leggendario Chelsea Hotel, appena sfiorita ma già immortale, e le implicazioni psicologiche oltre che immaginifiche del sadomasochismo, con una deriva quasi lesbo e delle linee di per sé scabre e tondeggianti rese ancor più scavate e tridimensionali da un bianco e nero di grande forza.

I motivi per procurarsi, leggere e soprattutto guardare a fondo Profondo nero, dunque, non sono affatto pochi, anche perché alla fine della fiera si tratta, come chiarisce nel miglior modo possibile il bellissimo epilogo, di una storia argentiana al cento per cento, incentrata essenzialmente su dei cuori neri che non sopportano l’idea di aver dato vita a dei mostri, e che di tale consapevolezza provano a farsi scudo per non impazzire. Una storia finita nel sangue e nel sangue iniziata, incisa nel segno di una lacrimevole consapevolezza, come ogni struggente storia d’amore e d’orrore che si rispetti: “Anche se non sono gigli, sono pur sempre figli”.

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