I figli del fiume Giallo
Jiang hu er nv
2018
Paesi
Cina, Francia, Giappone
Generi
Drammatico, Sentimentale
Durata
141 min.
Formato
Colore
Regista
Jia Zhang-ke
Attori
Zhao Tao
Liao Fan
Feng Xiaogang
Diao Yinan
Zheng Xu
Yibai Zhang
Qiao (Zhao Tao), una ex ballerina, è innamorata di Bin (Liao Fan), un gangster locale nella città mineraria cinese di Datong, che ha conosciuto una profonda crisi. Durante uno scontro campale tra gang rivali, Qiao spara un colpo di pistola per proteggere Bin: questo atto di fedeltà le costerà cinque anni di prigione. Uscita dal carcere, la ragazza si rimette in cerca di Bin per ripartire da dove erano rimasti.

Con I figli del fiume Giallo il cineasta cinese Jia Zhang-ke prosegue il suo discorso sulla Cina contemporanea e sui suoi stravolgimenti radicali e dolorosi. Partendo da alcune riprese realizzate nel 2001 e da altri scarti realizzati per alcuni lavori precedenti che hanno suggerito la natura di questo progetto (la sequenza della diga delle Tre Gole è tratta dal Leone d’Oro Still Life del 2006), il film si impernia ancora una volta intorno a Zhao Thao, moglie e attrice ricorrente nel cinema del regista, meravigliosa e ineccepibile nella sua interpretazione e in grado di reggere il film tutto sulle sue spalle. Quella di Jia è una Cina rutilante e al contempo ingrigita, scolpita nelle contraddizioni, come la prima parte efficacemente testimonia nel suo gioco di contrasti e invenzioni: le note di YMCA dei Village People in discoteca coesistono con il vecchio mondo operaio, schiacciato e alle corde. Suoni, odori e colori di epoche diverse, vengono accomunati con violenza e brutalità sotto il minimo comun denominatore di un capitalismo immemore e meschino, popolato da figure di mezza tacca sotto il profilo morale proprio come la protagonista, per metà film, e il suo amato. L’evasione fiabesca e dolente, proprio perché caramellata e plastificata, nei sogni e nel bagaglio pop dell’Occidente, contraltare delle macerie di un mondo ormai sepolto, continua a ispirare un regista che, come pochi altri, ha raccontato i cambiamenti e le trasformazioni del suo paese. Allo stesso tempo, però, sul terreno di questa consapevolezza il suo cinema non genera alcuno sviluppo successivo né scarto ulteriore, approdando, dopo una prima parte di pregio, a una seconda più debole e monocorde. Un blocco nel quale è messo in risalto con lirico e contemplativo distacco poetico e dei toni dilatati, ora ipnotici ora cadenzati, il mutamento della protagonista di pari passo con quello della Cina: un abbraccio fatale da parte del regista alla sua terra, che sa tanto di adesione ectoplasmatica ai suoi tanti fantasmi. Un processo metaforico che approda, tuttavia, a una riflessione sull’immagine digitale pretestuosamente incollata in calce a un finale frettoloso, non all’altezza e paradossalmente prolisso, che spinge troppo sul pedale della consapevolezza teorica con una freddezza e un calcolo che dimenticano la commozione e l’empatia che pure avevano fatto capolino appena poco prima, in una sontuosa scena di dialogo fatta di rimpianti sentimentali e sogni appassiti, di lacrime e, per l’appunto, di scorie e di cenere. Il film complessivamente è dunque significativo come tutto il cinema di Jia Zhang-ke ma alterno e disorganico nel ritmo e nel registro, oltre che sommessamente autoreferenziale (lo stesso regista si prende in giro con un personaggio suo omonimo in un paio d’occasioni), pur parlando lucidamente e per l’ennesima volta delle radici passate, presenti e future della storia tragica del proprio paese. Notevole la sequenza action della lotta campale tra gang con tanto di violenza estrema a mani nude, che ricorda le parentesi più efferate della sua filmografia. Come in Al di là delle montagne (2015) il film è tripartito: la prima parte si colloca nel 2001 nello Shanxi (la regione natale di Jia), la già citata seconda nel 2006 e l’ultima ai giorni nostri, nel 2018, in uno Shanxi ormai irriconoscibile. Presentato in concorso al Festival di Cannes.
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