Macchine mortali
Mortal Engines
2018
Paesi
Usa, Nuova Zelanda
Generi
Avventura, Fantascienza
Durata
128 min.
Formato
Colore
Regista
Christian Rivers
Attori
Hera Hilmar
Robert Sheehan
Hugo Weaving
Stephen Lang
Jihae
Colin Salmon
Joel Tobeck
Patrick Malahide
Molti anni dopo la "Guerra dei Sessanta Minuti", la Terra appare come una sterminata landa desertica, percorsa da gigantesche metropoli su ruote che attaccano e depredano le piccole città rimaste, prosciugandone le risorse a disposizione. L'orfano Tom Natsworthy (Robert Sheehan) si ritroverà a dover combattere per la sopravvivenza dopo essersi imbattuto in Hester Shaw (Hera Hilmar), una pericolosa fuggitiva.

Basato sul romanzo fantasy di Philip Reeve, scrittore inglese che ha saputo dar vita a una saga letteraria di successo, Macchine mortali è un colossale ingranaggio fantascientifico dagli echi dichiaratamente fantasy, che si avvale in sceneggiatura delle prestigiose firme del regista neozelandese Peter Jackson, di Fran Walsh e Phillippa Boyens, trio che ha già prestato la propria creatività ai copioni de Lo Hobbit e della trilogia de Il signore degli anelli. A dirigere, invece, c’è Christian Rivers, anch’egli originario della Nuova Zelanda e collaboratore di lungo corso di Jackson, tanto ai tempi dei suoi esordi quanto in progetti successivi come King Kong (2005) e Amabili resti (2009). Le garanzie per una confezione all’altezza c’erano dunque tutte, ma Macchine mortali è un progetto ben più deludente delle sue rispettabili premesse, perfettamente in linea con gusto steampunk. Fatta eccezione per una vena rutilante perfettamente consapevole dell’immaginario che maneggia, il film infatti non è altro che un b-movie con steroidi, ad altissimo budget ma derivativo e privo di qualunque pretesa, affossato a più riprese da un’idea di messa in scena e di computer graphic grossolana e tagliata con l’accetta, in cui i momenti raffazzonati e approssimativi non si contano e nella quale non c’è alcun margine per accrescere il respiro dell’operazione e dargli compiutezza. Il “darwinismo urbano”, concetto di alto livello al centro della narrazione in virtù del quale sono solo le città più forti e spietate a poter sopravvivere, è malamente sprecato da un’ambientazione londinese che non stupisce quasi mai e si sporca ripetutamente le mani col kitsch, senza riuscire ad agguantare un impianto visionario degno di questo nome. Le metafore sull’uso distorto della tecnologia alla base del progetto sono evidenti, per non parlare del discorso portato avanti sulla demagogia (in apertura c’è posto perfino per un’allusione alla Brexit), ma il sentore della paccottiglia è sempre dietro l’angolo e le cicatrici raccontate, da quelle reali a quelle filosofiche, faticano a incidere. Rivedibili anche molte soluzioni espressive, per non parlare del cast ampiamente sotto il livello di guardia, della storia d’amore evanescente che porta avanti la narrazione a tentoni e delle musiche assemblate con rara sciatteria. Da segnalare che Peter Jackson è accreditato anche come regista della seconda unità.
Maximal Interjector
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