Il giovane italo-irlandese Henry Hill (Ray Liotta) si fa strada nelle file della mafia newyorkese insieme a Jimmy Conway (Robert De Niro) e Tommy De Vito (Joe Pesci). Un mondo dove l'omicidio e la violenza sono all'ordine del giorno: eppure, persino Karen (Lorraine Bracco), la moglie di Henry, ne resta affascinata.
È Henry stesso, insieme a Karen, a raccontarci trent'anni di storia della malavita italoamericana, come nelle pagine del libro-reportage di partenza Wiseguy di Nicholas Pileggi, autore della sceneggiatura insieme allo stesso regista. Scorsese torna alle origini, raccontando ciò che conosce meglio: ma tra i giovani angeli caduti di Mean Streets (1973) e questi goodfellas che fanno dell'ammazzamento una routine quotidiana, lo scarto è fondamentale. Il film è una lucidissima analisi di un micromondo che ospita esseri di infinita meschinità e ormai privi di alcun senso dell'onore, un affresco socio-culturale con dialoghi di sorprendente naturalismo che vanno ben oltre lo stereotipo etnico. I fermi immagine congelano l'espressività animalesca dell'atto violento, gli incredibili piani-sequenza fanno girare la testa (memorabile sia la carrellata sulle facce dei compari che l'ingresso di Karen e Henry negli inferi del Copacabana), mentre una soundtrack infinita ci accompagna alla stregua di un juke box impazzito. Scorsese è al suo meglio, a dispetto dell'unico Oscar conquistato su sei nomination: per la cronaca, andato a un Joe Pesci brutalmente primitivo e psicotico. In compenso, si è guadagnato un Leone d'Argento per la miglior regia alla Mostra di Venezia. Senza Quei bravi ragazzi non ci sarebbero state le serie tv I Soprano e Boardwalk Empire, ma nemmeno le decine di mafia-movies fioriti dagli anni '90 che hanno cercato (inutilmente) di imitarlo.