Santa Sangre - Quanto è santo il sangue della famiglia Jodorowsky?
24/06/2025

Riceviamo e con piacere condividiamo questa analisi di Nadia Morghen su Santa Sangre di Alejandro Jodorowsky.


In Santa Sangre, Alejandro Jodorowsky non mette in scena soltanto una narrazione visionaria, disturbante e potentemente simbolica, ma anche una sorta di confessione travestita da mito. Al centro c’è Fenix, un giovane traumatizzato e psicologicamente spezzato, interpretato dal vero figlio del regista, Axel Jodorowsky. La sua vicenda si svolge in un universo in cui l’albero genealogico non rappresenta una radice da cui trarre forza, ma piuttosto una trappola, una gabbia, una prigione.

Fenix sembra rinascere dalle proprie ceneri, ma la sua rinascita è ambigua: non è mai del tutto chiaro se si tratti di una redenzione o dell’ennesima condanna. È consapevole, Fenix, del fardello ereditario che lo sovrasta? Il falco tatuato con un coltello sul petto — un rito cruento e definitivo — è un patto di sangue che lo lega al padre e alla stirpe, incarnata dal circo: regno degli emarginati, degli outsider.

Ma cosa c’è di più outsider di chi viene rifiutato persino dalla propria famiglia?

Jodorowsky stesso è stato uno straniero dell’anima fin dall’infanzia: arrivato in Cile come un corpo bianco in una terra meticcia, mai accolto da patria, fede o ideologia. Né Europa né Sudamerica, né politica né religione: un esilio interiore, uno spazio sospeso tra mondi — come il deserto mentale in cui Fenix danza, sospeso tra sogno e realtà.

Il film si apre in un ospedale – o è forse una cella? Un manicomio, un centro di riabilitazione? In ogni caso, è uno spazio liminale, uno spazio in cui la soggettività è messa tra parentesi. Fenix è lì perché la sua identità è stata disintegrata dalla famiglia, che – anziché proteggerlo – lo ha manipolato, schiacciato, cancellato.

In questo vortice, la madre si erge come un’ombra immensa e totalizzante. È lei la sacerdotessa del tempio interiore, colei che esercita il suo dominio spirituale e carnale; non ministra acqua benedetta, ma invoca il potere del Santo Sangue. Ma quanto è santo, davvero, questo sangue? È vernice che sporca l’anima, è mestruo cosmico, è sangue antico che ha smesso di pulsare. È materia sacra e corrotta insieme: sangue rituale e sangue maledetto che incatena invece di liberare. Non fluido di vita, ma sigillo di una prigionia sacra.

Il tronco su cui Fenix si posa— scena emblematica — è il ceppo familiare che segna, plasma, inchioda. Da quel trespolo Fenix non vuole scendere, non vuole nutrirsi: è più uccello che uomo, più creatura mitologica che individuo.

La madre è guida spirituale e carceriera emotiva, colei che dà la vita, ma anche la sottrae. È un’ombra onnipresente, una chiesa personale e deviata, una Madonna rossa e iconoclasta.

Fenix arriva persino a sostituire le sue braccia: una potente metafora del controllo assoluto che la madre esercita su di lui, fino a impossessarsi del suo stesso corpo.

Eppure, mentre la madre domina la narrazione — è lei a essere uccisa da Fenix in una catarsi mitologica e psicoanalitica — il regista sembra rimuovere il proprio ruolo paterno nella genesi di quel trauma.

Cristóbal, con la sua sensibilità profonda, non si è limitato a seguire la visione paterna, ma ne è diventato parte integrante, immerso in quell’universo simbolico. Il cambio di nome, da Axel a Cristóbal, è un gesto psicomagico di emancipazione: un taglio rituale con l’albero genealogico, un tentativo di sciogliere i nodi invisibili dell’eredità per ritrovare un’identità tutta sua, libera dal peso paterno.

In effetti, se osserviamo la biografia dei figli di Jodorowsky — e in particolare di Cristóbal (nato Axel), interprete di Fenix — emerge un rapporto complesso, carico di proiezioni. Alejandro, più che semplice padre, è stato per i suoi figli un alchimista creativo, capace di trasformare la loro vita in materia prima per la propria opera.

E il sangue di Cristo che sgorga — in una delle scene più potenti — non è soltanto simbolo sacro: è la materializzazione del trauma, delle cicatrici invisibili, della sofferenza taciuta.

Cristóbal ha provato a sfuggire al suo destino cambiando nome, ma le radici restano impossibili da estirpare. L’albero genealogico non cade con un colpo d’accetta: rimane lì, un’ombra che si insinua in ogni scelta, in ogni relazione, in ogni creazione.

Forse, allora, il parricidio avrebbe avuto più senso del matricidio. Forse, per salvarsi davvero, Cristóbal avrebbe dovuto uccidere Alejandro — simbolicamente, naturalmente — per liberarsi da quell’ombra onnipresente. Ma questa verità resta nascosta sotto il tappeto del film, lasciando aperta una domanda provocatoria:

Chi è il vero carnefice, e chi la vera vittima, in questa sacra famiglia?


Nadia Morghen


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