Una famiglia d'origine rom vive, tra difficoltà e povertà, in un isolato villaggio della Bosnia; la loro quotidianità assume contorni tragici quando la moglie (Senada Alimanovic) inizia a stare male e il marito (Nazif Mujic) è costretto a trovare i soldi necessari alle cure. Il bosniaco Denis Tanović, dopo una serie di pellicole poco riuscite, torna ai livelli del suo esordio No Man’s Land (2001), dimostrando di avere ancora molto da dire in campo cinematografico. Lo fa liberandosi da ogni tipo di orpello stilistico e narrativo, raccontando una storia quotidiana nella maniera più essenziale possibile, riprendendo la lezione del neorealismo, in particolare quella del pedinamento “zavattiniano”: lo sguardo allo stesso tempo radicale e scarno riesce a cogliere e a trasmettere la drammaticità della vicenda, le difficoltà e la desolazione quotidiana nella loro essenza più immediata e pura. È un film che riesce a commuovere e far immedesimare con la situazione disperata del protagonista, creando una notevole empatia tra spettatore e personaggio. Intelligenti sono però anche la scelta di non eccedere nel patetismo e nell’accumulo di disgrazie, come dimostra l’intelligente finale di speranza, e soprattutto quella di non esprimere una denuncia sociale diretta. Il regista, infatti, mostra senza prendere esplicitamente una posizione, anche se l’influenza del contesto bosniaco devastato dall’onda lunga del dopoguerra è chiara: si vedano, per esempio, le panoramiche sul paesaggio, osservato dal finestrino, ricorrenti nei vari tragitti in auto. Con l’eccezione de L'enfer (2005), è la prima volta che Tanović non affronta di petto il tema della guerra (comunque citata), la quale però agisce sulla vicenda come un fantasma neanche troppo lontano. Attori non professionisti decisamente a loro agio, in particolare il protagonista Nazif Mujic, vincitore dell'Orso d'argento per il miglior attore al Festival di Berlino 2013, manifestazione in cui il film ha ottenuto anche un meritatissimo Gran Premio della Giuria.