Bubby (Nicholas Hope), trentacinquenne mentalmente ritardato, vive da sempre segregato dalla madre (Claire Benito) in un fatiscente scantinato, senza possibilità di contatto con l'esterno. L'inaspettato ritorno del padre (Ralph Cotterill) aprirà a Bubby non solo la porta della sua prigione, ma anche la visione di un mondo grottesco quanto quello che si lascerà alle spalle. Originale quanto zoppicante e imperfetto, il film dell'olandese Rolf de Heer (anche sceneggiatore) traccia una sorta di delirante profilo psicologico di un adulto/bambino, filtrando attraverso i suoi occhi la visione di una realtà che non appare tanto difforme dal claustrofobico universo di assurdità nel quale il protagonista è forzatamente vissuto senza crescere. Bubby, di età mentale ingenuamente fanciullesca, afflitto da complessi edipici nei confronti di una madre oppressiva che arriva ad abusare sessualmente di lui, vive di rituali elementari, gesti ripetitivi e nella totale ignoranza del mondo, percepito come una mortale minaccia. La scoperta della realtà fa di lui un totale outsider, libero nel corpo, ma ancora imprigionato dalle proprie animalesche e viscerali pulsioni sessuali nello sforzo d'imparare a comunicare col prossimo a partire da zero. Se l'incipit del film, relegato in quattro mura piene di decadenza e lordume, sembra porre solide basi, è invece deludente il prosieguo, stemperato nelle ripetitività della narrazione. Stilisticamente e tematicamente coraggioso, Bad Boy Bubby sembra anticipare di parecchi anni quel Kynodontas (2009) di Yorgos Lanthimos, che affronta con ben altro spessore il tema di una realtà familiare disfunzionale e distorta sino al violento parossismo. Vincitore del Premio della Giuria alla Mostra di Venezia nel 1993.