Nelle strade desolate di Stockton, California, si incrociano i destini di due pugili: Billy Tully (Stacy Keach), ex campione che si arrabatta tra umili lavori da bracciante e tenta il ritorno sul ring, ed Ernie Munger (Jeff Bridges), giovane promessa che scopre ben presto come la vita possa essere arida di soddisfazioni. Dal romanzo di Leonard Gardner, anche autore della sceneggiatura, uno straziante dramma a sfondo sportivo: dopo aver diretto una manciata di opere poco convincenti, John Huston – alle spalle una carriera registica ormai trentennale – regala un'inattesa zampata di genio. Perfettamente inserito in una fase del cinema statunitense orientata all'auto-riflessione intimista sulla società, Città amara – Fat City è una ballata finissima e dolente dedicata all'America marginale, un affresco disilluso sul tramonto delle speranze e della giovinezza. I personaggi sono tutti outsider che si muovono tra locali di quart'ordine e squallidi appartamenti: dall'alcolizzata devastata dagli schiaffi della vita, ai manager e agli atleti che sognano traguardi irraggiungibili, fino ai due protagonisti, perdenti anche quando vincono sul ring. Grandissimo Stacy Keach, attore evidentemente sottoutilizzato da Hollywood, mentre Jeff Bridges, reduce dall'altrettanto fondamentale L'ultimo spettacolo (1971) di Peter Bogdanovich, si conferma perfetto volto generazionale. A impreziosire ulteriormente i toni malinconici della pellicola ci pensa la voce di Kris Kristofferson, che nel bellissimo inizio canta Help Me Make It Through the Night. Nella sua essenzialità, nella sua regia composta e silenziosa, nella sua capacità di raccontare anche senza servirsi di grandi svolte narrative, è semplicemente un film imprescindibile. Fotografia di Conrad L. Hall; candidato a un Oscar per la migliore attrice non protagonista (Susa Tyrrell nel ruolo di Oma).