L'attrice Robin Wright (Robin Wright) fatica ormai terribilmente a imporre una svolta alla sua carriera, visti gli anni che avanzano e i due figli a carico, di cui uno anche disabile. Riesce a interloquire con un importante produttore hollywoodiano (Harvey Keitel), che le offre di inaugurare un nuovo modello di recitazione basato sulla trasformazione digitale della propria immagine, cedendo completamente i propri diritti d'immagine così da consentire che le venga creato un alter ego digitale che reciti al posto suo. Dopo lo strepitoso successo di Valzer con Bashir (2008), Ari Folman torna dietro la macchina da presa con uno strambo film distopico che mescola una prima parte con attori in carne e ossa e una seconda totalmente animata. Il regista israeliano lavora su una impostazione fantascientifica che alterna satira hollywoodiana e demistificazione sferzante degli ideali utilitaristici dell'industria cinematografica americana. Il coté futurista però, oltre a mettere molta carne al fuoco in modo talvolta scriteriato e caotico, non convince appieno e appare in più punti didascalico e fin compiaciuto. È soprattutto la riflessione sulle coercizioni del potere a essere affrontata in maniera precipitosa e strumentale, mentre più pregnante è il discorso sulla negazione dell'individualità, alla quale è concesso soltanto di alterare la propria percezione psichica e neuronale per tuffarsi in un'altra dimensione. Nonostante i molti passaggi a vuoto, lo stile di Folman è nuovamente stupefacente sotto il profilo visivo e gran parte delle soluzioni formali della seconda parte lasciano davvero a bocca aperta. Ispirato al racconto The Futurological Congress (1971) di Stanislav Lem, già autore del romanzo Solaris dal quale Andrej Tarkovskij aveva tratto l'omonimo film del 1972.