New York, fine ‘800. L'avvocato Newland Archer (Daniel Day-Lewis) è fidanzato con la ricca May Welland (Winona Ryder), ma si innamora dell'anticonformista contessa Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), invisa all'alta società bigotta per aver abbandonato il marito.
Potrebbe sembrare anomalo l'accostamento tra Martin Scorsese, cantore della New York contemporanea e del suo marciume metropolitano, e il romanzo di Edith Warthon, ambientato tra i merletti e i pettegolezzi dell'alto-borghesia americana ottocentesca. E, invece, raramente un matrimonio cinematografico fu così felice: in una ricostruzione d'epoca tanto maestosa e realista da poter essere accostata solo al perfezionismo viscontiano, l'analisi di questo microcosmo soffocato dalle convenzioni sociali e dal culto caparbio delle apparenze è impeccabile e chirurgica proprio come quella dell'universo mafioso in Quei bravi ragazzi (1990). Attori in stato di grazia, inquadrature che ricordano quadri di Monet o Seurat, precisione millimetrica nelle scenografie (di Dante Ferretti) e nei costumi (di Gabriella Pescucci, l'unico Oscar conquistato dal film), una varietà infinita di carrellate, piani sequenza in soggettiva e altri movimenti di macchina che però non sfiorano mai il tecnicismo fine a se stesso. Ma al di là di tutto ciò, il melò di Scorsese è grande soprattutto perché è lontano dalle tradizionali pellicole in costume e dal manierismo affettato di certo cinema britannico: ogni dettaglio così meticolosamente curato, ogni scena accarezzata dall'esplicativa voce narrante (di Joanne Woodward nella versione originale, di Maria Pia Di Meo nel doppiaggio italiano) sono funzionali alla rappresentazione di un'America che, nemmeno nella sua ipocrita imitazione della società aristocratica europea, è mai stata innocente.