Una famiglia
2017
Paesi
Italia, Francia
Genere
Drammatico
Durata
97 min.
Formato
Colore
Regista
Sebastiano Riso
Attori
Marco Leonardi
Micaela Ramazzotti
Patrick Bruel
Fortunato Cerlino
Ennio Fantastichini
Matilda De Angelis
Nella periferia romana, Maria (Micaela Ramazzotti) e Vincenzo (Patrick Bruel) conducono una problematica vita di coppia: la giovane, fragile e sottomessa, è costretta a sottostare al volere dell’uomo, il quale la sfrutta per procurare illegalmente figli alle coppie che non ne possono avere. Un giorno la donna capisce che il suo vero desiderio è quello di tenere un figlio per sé e costruirsi una famiglia. Le dolorose conseguenze del suo gesto non tarderanno ad arrivare.
Al suo secondo lungometraggio, Sebastiano Riso (classe 1983) arriva generosamente in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con un dramma “ispirato a storie vere” che si concentra su una singola vicenda per denunciare una condizione purtroppo diffusa. L’approccio dal basso, più che dare forma a uno sporco realismo, si attesta su un livello di amatorialità che sfocia spesso nel ridicolo sia nei dialoghi, sia nella pessima direzione degli attori. Il personaggio di Vincenzo, classico orco contro cui combattere, segue tutte le convenzioni del caso nel modo più piatto e prevedibile possibile, mentre invece quello centrale di Maria, interpretato da una Micaela Ramazzotti fuori parte come non mai, ha l’imperdonabile difetto di non essere mai credibile e di rimanere rintanato in un pressappochismo psicologico che rende il suo ruolo esclusivamente irritante, impedendo allo spettatore di empatizzare anche solo per un momento. Tra improbabili soluzioni di montaggio e una scrittura dalla continuità narrativa perlomeno fallace, il racconto rimane una parabola posticcia e frammentaria, con più di un momento fuori luogo o, addirittura, scult (il feto senza vita sul letto di morte, le liti in casa, la coppia omosessuale). Le situazioni con cui il film si trascina avanti sono semplicemente imbarazzanti e affondano a più riprese nel ridicolo involontario, compreso l’ingresso in scena di una coppia omosessuale che più improbabile non si può. Davvero pessimo e lontano da qualsiasi forma di pudore e di giusta distanza.
Al suo secondo lungometraggio, Sebastiano Riso (classe 1983) arriva generosamente in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con un dramma “ispirato a storie vere” che si concentra su una singola vicenda per denunciare una condizione purtroppo diffusa. L’approccio dal basso, più che dare forma a uno sporco realismo, si attesta su un livello di amatorialità che sfocia spesso nel ridicolo sia nei dialoghi, sia nella pessima direzione degli attori. Il personaggio di Vincenzo, classico orco contro cui combattere, segue tutte le convenzioni del caso nel modo più piatto e prevedibile possibile, mentre invece quello centrale di Maria, interpretato da una Micaela Ramazzotti fuori parte come non mai, ha l’imperdonabile difetto di non essere mai credibile e di rimanere rintanato in un pressappochismo psicologico che rende il suo ruolo esclusivamente irritante, impedendo allo spettatore di empatizzare anche solo per un momento. Tra improbabili soluzioni di montaggio e una scrittura dalla continuità narrativa perlomeno fallace, il racconto rimane una parabola posticcia e frammentaria, con più di un momento fuori luogo o, addirittura, scult (il feto senza vita sul letto di morte, le liti in casa, la coppia omosessuale). Le situazioni con cui il film si trascina avanti sono semplicemente imbarazzanti e affondano a più riprese nel ridicolo involontario, compreso l’ingresso in scena di una coppia omosessuale che più improbabile non si può. Davvero pessimo e lontano da qualsiasi forma di pudore e di giusta distanza.
Iscriviti
o
Accedi
per commentare