The Front Runner – Il vizio del potere
The Front Runner
2018
Paese
Usa
Generi
Biografico, Drammatico
Durata
113 min.
Formato
Colore
Regista
Jason Reitman
Attori
Hugh Jackman
Vera Farmiga
J.K. Simmons
Mark O'Brien
Molly Ephraim
Gary Hart (Hugh Jackman) nel 1987 è il candidato di punta del Partito Democratico per la corsa alla Casa Bianca. I suoi modi attraenti colpiscono e fanno la differenza, ma le sue abitudini da donnaiolo gli si ritorcono contro nel momento in cui viene immortalato in compagnia di una presunta amante da dei cronisti del Miami Herald che gli tendono una trappola: lo scandalo della relazione extraconiugale lo porterà a dover rinunciare alla campagna elettorale.
L’eclettico regista Jason Reitman si concede una parentesi da cinema civile americano in piena regola, affrontando la storia vera di un politico statunitense che sperimentò sulla propria pelle cosa accade nel momento in cui il racconto delle sorti di un paese si sovrappone al gossip sguinzagliato senza alcuna remora e i media, dal canto loro, iniziano a inseguire gli istinti più bassi e voyeuristi di spettatori e lettori. Ne viene fuori un prodotto ritmato e divertente, incalzante e vittima di qualche isolato compiacimento e schematismo di sceneggiatura, in cui si fanno direttamente i conti con un dibattito pubblico che si avvia a ibridarsi completamente con le dinamiche dello show business e le relative, frivole, contraddittorie implicazioni. Il film accarezza con delicatezza ma anche con toni rigorosi e affilati questo tema, calandolo in un’America immediatamente post-Reagan, ancora lontana dallo scandalo a luci rosse che vide protagonisti il presidente Bill Clinton e la sua stagista Monica Lewinsky circa un decennio dopo e soprattutto dagli sfrenati eccessi sessuali di Donald Trump, rispetto ai quali le vicende adulterine e spaventosamente ordinarie di Hart, col senno di poi, fanno quasi tenerezza. Il merito del film di Reitman è soprattutto quello di immortalare gli albori di una politica-spettacolo in cui non tutto era ancora lecito, in una radiografia corale di vizi e virtù in cui a essere scansionati sono in prima battuta la cultura americana e il suo puritanesimo indomito, ma anche gli intrecci spesso nebulosi e controversi tra pubblico e privato, tra sciacallaggio e documentazione giornalistica. L’affresco che emerge a chiare lettere è quello di un paese sull’orlo della perdita dell’innocenza, che il film collega direttamente all’attualità attraverso un epilogo carico di chiaroscuri e di grande impatto figurativo oltre che tematico, nel quale si arriva a citare Thomas Jefferson e la sua frase su un presidente degli Stati Uniti d’America di cui ci si potrebbe arrivare a vergognare (ogni riferimento al presente è tutt’altro che puramente casuale). Il ritiro di Gary Hart spianò la strada, nel 1988, all’elezione di George Bush senior, che imporrà la sua dinastia presidenziale e traghetterà gli USA verso la Guerra del Golfo e una nuova epoca: manco a dirlo, poteva essere tutta un’altra Storia. Sceneggiatura molto ispirata e cast in grande forma, con Hugh Jackman impegnato in una delle sue prove più cariche di sfumature e suggestione e una Vera Farmiga non meno intensa. Nel ricco cast di seconde linee (una partitura ottimamente accordata) fanno la parte dei leoni, come spesso gli capita, J.K. Simmons e Alfred Molina. Scelto come film d’apertura del Torino Film Festival 2018.
L’eclettico regista Jason Reitman si concede una parentesi da cinema civile americano in piena regola, affrontando la storia vera di un politico statunitense che sperimentò sulla propria pelle cosa accade nel momento in cui il racconto delle sorti di un paese si sovrappone al gossip sguinzagliato senza alcuna remora e i media, dal canto loro, iniziano a inseguire gli istinti più bassi e voyeuristi di spettatori e lettori. Ne viene fuori un prodotto ritmato e divertente, incalzante e vittima di qualche isolato compiacimento e schematismo di sceneggiatura, in cui si fanno direttamente i conti con un dibattito pubblico che si avvia a ibridarsi completamente con le dinamiche dello show business e le relative, frivole, contraddittorie implicazioni. Il film accarezza con delicatezza ma anche con toni rigorosi e affilati questo tema, calandolo in un’America immediatamente post-Reagan, ancora lontana dallo scandalo a luci rosse che vide protagonisti il presidente Bill Clinton e la sua stagista Monica Lewinsky circa un decennio dopo e soprattutto dagli sfrenati eccessi sessuali di Donald Trump, rispetto ai quali le vicende adulterine e spaventosamente ordinarie di Hart, col senno di poi, fanno quasi tenerezza. Il merito del film di Reitman è soprattutto quello di immortalare gli albori di una politica-spettacolo in cui non tutto era ancora lecito, in una radiografia corale di vizi e virtù in cui a essere scansionati sono in prima battuta la cultura americana e il suo puritanesimo indomito, ma anche gli intrecci spesso nebulosi e controversi tra pubblico e privato, tra sciacallaggio e documentazione giornalistica. L’affresco che emerge a chiare lettere è quello di un paese sull’orlo della perdita dell’innocenza, che il film collega direttamente all’attualità attraverso un epilogo carico di chiaroscuri e di grande impatto figurativo oltre che tematico, nel quale si arriva a citare Thomas Jefferson e la sua frase su un presidente degli Stati Uniti d’America di cui ci si potrebbe arrivare a vergognare (ogni riferimento al presente è tutt’altro che puramente casuale). Il ritiro di Gary Hart spianò la strada, nel 1988, all’elezione di George Bush senior, che imporrà la sua dinastia presidenziale e traghetterà gli USA verso la Guerra del Golfo e una nuova epoca: manco a dirlo, poteva essere tutta un’altra Storia. Sceneggiatura molto ispirata e cast in grande forma, con Hugh Jackman impegnato in una delle sue prove più cariche di sfumature e suggestione e una Vera Farmiga non meno intensa. Nel ricco cast di seconde linee (una partitura ottimamente accordata) fanno la parte dei leoni, come spesso gli capita, J.K. Simmons e Alfred Molina. Scelto come film d’apertura del Torino Film Festival 2018.
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