Gli ultimi giorni di vita di una rockstar, Blake (Michael Pitt), chiaramente ispirata alla figura di Kurt Cobain e al tragico epilogo della sua esistenza, culminata col suicido. Il cantante, infatti, mise fine ai suoi giorni sparandosi in testa con un fucile da caccia. Last Days somiglia a una seduta spiritica, a una reunion di spettri. Ma è proprio l'addensarsi di ombre non più sopportabili ciò che avrà spinto al suicidio uno degli idoli rock più celebri degli anni Novanta, come testimonia l'ultima lettera scritta da Cobain prima di suicidarsi, apice dopo anni caratterizzati da un rapporto assai tormentato con la fama e la visibilità. A Van Sant però non interessa nulla del paratesto, e su di lui non sortisce nessun influsso alcuna morbosità di circostanza: ciò che sembra stimolarlo più da vicino è la riflessione sul tempo in rapporto al pensiero e al vissuto umano. Il suo è infatti un racconto scarnificato che, più degli effetti di una depressione stritolante, si concentra su dettagli apparentemente irrilevanti, sugli stimoli e i paesaggi esterni, non sugli effetti ma sulle cause. Cause che però, paradossalmente, paiono inesistenti, in un film che vorrebbe raccontare l'invisibile e finisce invece per risultare inconsistente. Van Sant di fatto non racconta e, tantomeno, evoca: non costruisce un dialogo col vuoto d'animo o con la disperazione, ma si limita a fissarli dall'esterno, dando vita a una pellicola che, nonostante una messa in scena ipnotica, è ombelicale, vuota e priva di slanci. E racchiude il peggio della capacità artistica di Gus Van Sant, ben espressa invece nel precedente Elephant (2003).