Cinque adolescenti di buona famiglia si macchiano di un crimine disgustoso nel quale non censurano in alcun modo i propri istinti più selvaggi. Il compito di rieducarli viene assegnato al capitano di una nave che userà modalità altrettanto brutali per correggere la loro indole.
L’artista visivo francese Bertrand Mandico, alfiere di un cinema scomposto e sperimentale che negli anni ha trovato posto tanto al Festival di Cannes quanto a quello di Venezia attraverso alcuni cortometraggi, esordisce con un’opera prima che si configura fin da subito come un caleidoscopio bulimico di trovate abrasive e di fiammeggianti intuizioni visive. Le sue immagini rilanciano con incredibile ostinazione e (fotogramma dopo fotogramma) la loro irredimibile e sconfinata vanità, cupissima ed estetizzante ma anche liberatoria e sconsiderata, collocandosi al di là di ogni casella di genere, schema narrativo e bon ton stilistico. Lavorando artigianalmente su un patchwork di grande impatto sensoriale, disturbante e viscerale e a più riprese, Mandico non manca di evidenziare in modo forsennato il suo talento sregolato e privo di argini, ma non riesce a evitare che il suo film imbarchi acqua e naufraghi per via di una pretenziosità senz’altro ardimentosa ma anche eccessiva e mal riposta. La riflessione sul malessere adolescenziale e sulla sua pulsione di morte si ferma infatti a un maledettismo di superficie, guidato da una cinefilia tanto incandescente quanto masturbatoria, che tuttavia frulla con impressionante e travolgente sconcerto il cinema di Fassbinder e quello di Genet, Jean Cocteau e Jean Vigo, i viaggi di Jules Verne e chi più ne ha più ne metta, senza dimenticare Il signore delle mosche di William Golding e ovviamente anche la lezione di Kenneth Anger. Il risultato può sembrare caotico e prossimo alla macelleria cinéphile, ma è indubbia la capacità di Mandico di fare cinema importante con un’attitudine trucida e scomposta, nella quale il contrasto tra bianco e nero e colore si fa correlativo stringente dell’impossibilità di trovare un centro e un formato privilegiato, con una conseguente agitazione formale che non può dunque trovare riposo. Presentato alla Settimana della Critica di Venezia nel 2017 ed eletto miglior film dell’anno dai Cahiers du Cinéma nel 2018.