Hans (Hans Hirschmüller) ha tutte le caratteristiche del perdente patentato: ha una madre che lo affligge e lo ritiene un buono a nulla, e una moglie che non gli è fedele. Si strugge nella ricerca fuori tempo massimo di un amore impossibile, e cerca rifugio nella consolazione dell'alcol, ma la strada verso l'autodistruzione è ormai imboccata.

Lo sguardo di Fassbinder, dopo il punto di non ritorno rappresentato da Attenzione alla puttana santa (1971), spartiacque della sua filmografia, sonda l'esistenza repressa di un uomo del popolo, un semplice fruttivendolo, fallimentare come tanti altri, le cui ambizioni di rivalsa lo conducono a tonfi personali e vessazioni ancora più sonore delle precedenti. Il disincanto e il crudo pessimismo del regista tedesco diventano in questo caso puro nichilismo antiborghese, che trova la sua massima catarsi solo e soltanto nell'annullamento di sé, da schiaffare in faccia ai propri aguzzini (la madre, la moglie) nel modo più plateale e privo di compromessi possibile. Tale cifra è assolutamente fedele alle corde dell'autore, e alla sua percezione del mondo e degli esseri umani, ma deve molto allo sguardo registico del suo modello Douglas Sirk, che omaggerà a pieno titolo nel 1974, realizzando La paura mangia l'anima sulla base di Secondo amore (1955), uno dei grandi melodrammi del suo maestro. Il mercante delle quattro stagioni, nonostante riesca a risultare toccante e ricco di momenti importanti, racconta una discesa agli inferi intervallata da tappe davvero risapute, prevedibili sia nella scansione interna che nella programmatica assenza d'ottimismo. Una tendenza all'equazione esatta, più che all'approfondimento psicologico, in grado di compromettere quello che, per il resto, è un ottimo esempio della bravura di Rainer Werner Fassbinder.