Peregrinazioni randagie e avventure amorose del maledetto e cupo Johnny (David Thewlis), filosofo autodistruttivo e solitario, che teorizza sull'Apocalisse e non concepisce alcun tipo di rapporto con l'altro sesso che non sia all'insegna della prevaricazione e della coercizione. Il film più duro e cupo di Mike Leigh: un'immersione nei bassifondi londinesi, un tessuto urbano che accoglie dentro di sé, e nei suoi appartamenti, giovani sbandati e derelitti, sessualmente disinibiti e prede delle loro pulsioni, inclini al soddisfacimento utilitaristico del proprio ego. Una specie di comunità tribale priva di coordinate affettive oltre che di sani metodi d'aggregazione. Lo sguardo di Leigh è radicale e affascinante, annega nel torbido e se ne lascia attrarre, estremizzando una messa in scena elegante e respingente al tempo stesso, in cui il profluvio verbale del protagonista, interpretato da un magnifico e scavato David Thewlis, appare tutt'uno con un mondo così cancerogeno da poter accettare solo intellettuali nichilisti e sadomasochistici. Il ventre profondo della società britannica, il più rimosso e il più marginale, è percorso da Leigh con la stessa spietatezza e rapacità sessuale del protagonista, che usa le donne come pedine asservite al suo gioco a tratti lucido e a tratti delirante, ma anche con un fortissimo e mirabile senso estetico, aiutato da una eccellente colonna sonora sinfonica. Il dubbio del compiacimento, della verbosità masturbatoria, della crudezza a tavolino e del pessimismo cosmico programmatico, che pure in più di un'occasione non può non insorgere, è tuttavia spazzato via dalla complessiva precisione chirurgica con cui il regista mette a fuoco la sua narrazione e questo mondo isterico e doloroso («L'umanità è solo una componente del meccanismo attraverso cui il diavolo crea se stesso»). Potrebbe sembrare un film effettistico, invece è solo espressionismo di gran classe. Palma d'Oro a Cannes nel 1993 per il Miglior attore a David Thewlis.