I coniugi Madison, Fred e Renee (Bill Pullman e Patricia Arquette), ricevono delle inquietanti videocassette che ritraggono l'interno della loro abitazione. Il responsabile potrebbe essere un uomo misterioso (Robert Blake) che conoscono a un party: al termine della festa, Fred passa una notte tormentata e ha la visione di se stesso ai piedi del letto di fronte al corpo smembrato della moglie. Un poliziotto lo sveglia e Fred si trova catapultato in un incubo che potrebbe non avere mai fine.
«Dick Laurent è morto»: si apre (e si chiude) con questa semplice frase uno dei film più affascinanti, ambigui e controversi di tutti gli anni Novanta. David Lynch firma la sceneggiatura insieme a Barry Gifford, lo scrittore di Cuore selvaggio, romanzo da cui il regista aveva preso spunto per la sua omonima pellicola del 1990. Aperto dalle emblematiche note di I'm Deranged («Sono impazzito») di David Bowie, Strade perdute è un viaggio circolare negli abissi della mente umana, in cui l'inizio coincide con la fine e la cui ispirazione potrebbe essere il nastro di Möbius. Lynch aveva già lavorato sul tema della (doppia) identità – si pensi alla serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991) – ma non era mai stato così esplicito e non aveva mai azzardato tanto. Fred finisce in prigione e avviene una vera e propria metamorfosi: in cella c'è Pete Dayton (Balthazar Getty), un altro ragazzo con un'altra vita, che si scoprirà indissolubilmente legato a Fred grazie a una (stessa?) donna. Lynch muove a suo piacimento le dimensioni e i personaggi, inserendo nella finzione un suo corrispettivo: il demiurgico “mystery man”, regista interno al film che, non a caso, porta con sé una videocamera. I rischi di eccessivo contorcimento drammaturgico sono evidenti, ma i colpi di scena continui e le sequenze angoscianti tengono alta l'attenzione fino alla fine. Rimanere immuni alla bellezza ipnotica di Strade perdute è quasi impossibile: soprattutto nella splendida prima mezz'ora, grazie anche all'ottima prova di Robert Blake. È una svolta spiazzante e cruciale nel cinema del regista, che lascia intravedere alcuni elementi che verranno ripresi nei suoi due lungometraggi del primo decennio del nuovo millennio: Mulholland Drive (2001) e INLAND EMPIRE – L'impero della mente (2006).