Nella Taiwan degli anni Cinquanta, Ah Ha (You An-shun) ha dovuto far fronte al trasferimento della sua famiglia dalla Cina. La sua, in quel periodo, non è la sola famiglia residente in territorio taiwanese che spera di poter far ritorno in patria. Hou Hsiao-hsien parte dall'autobiografia e ne fa il perno del suo film, intorno al quale costruisce una partitura libera ma molto controllata, che ricorre al minimalismo ma che, allo stesso tempo, non rinuncia a una cura formale esaltante e spesso incredibile. I marchi di fabbrica dell'autore sono dunque tutti presenti, e la storia di Taiwan è la tela su cui si innestano ricordi e allusioni, scampoli di vita vissuta ed episodi che si rincorrono uno dietro l'altro, con la calma olimpica di un cineasta completamente estraneo alle necessità frenetiche del cinema contemporaneo. Il regista vive e respira la sua cultura nazionale insieme alla sua vita privata, non prescinde da essa ma non per questo ne imbastisce una lode sperticata e assolutoria: nel suo film, e nel suo cinema, ci si muove in punta di piedi anche nelle situazioni più spinose e toccanti, e la complessità del suo sguardo, in quanto tale, preferisce evitare polarizzazioni troppo evidenti, preferendo loro una più salutare moderazione. Non per questo, però, il suo albo nostalgico è anestetico, perché la rassegnazione non coincide mai con l'accettazione miope del destino avverso, e anche lo scoramento è sempre problematizzato.