Esiste una teoria secondo la quale gli esseri umani sono nati con una piccola quantità di alcol già presente nel sangue (ma con un deficit congenito dello 0,05 %) e che, pertanto, una piccola ebbrezza possa aprire le nostre menti al mondo che ci circonda, diminuendo la nostra percezione dei problemi e aumentando la nostra creatività. Rincuorati da questa teoria, Martin (Mads Mikkelsen) e tre suoi amici, tutti annoiati insegnanti delle superiori, intraprendono un esperimento per mantenere un livello costante di ubriachezza durante tutta la giornata lavorativa.
Dopo due film produttivamente molto spuri, dimenticabili e derivativi come Via dalla pazza folla e Kursk, intervallati dal più personale ma comunque poco riuscito La comune, il cineasta danese Thomas Vinterberg si rituffa nelle atmosfere più proprie e peculiari del suo cinema con una storia bizzarra ma dall’altissimo potenziale cinematografico. Un altro giro si inscrive infatti pienamente nella poetica di un autore come quella del regista di Festen, che in molti momenti della sua carriera ha dimostrato di essere del tutto a suo agio nelle zone d’ombra un po’ ambigue, in cui il senso della morale e del socialmente accettato si sfalda e si fa labile. È così anche in questo caso, dove una sorta di "drinking game" calato in contesti ordinari e molto quotidiani e (all’apparenza) ben poco estremo finirà per scardinare le vite di un manipolo di personaggi legati da una salda amicizia di vecchia data ma anche da vite ostaggio del grigiore, degli appannamenti e dei bilanci non proprio esaltanti della mezza età. Rispetto alla media dei film di Vinterberg, la sceneggiatura ha un piglio però più leggero e pimpante, vanta dei dialoghi che oltre a essere indubbiamente ben scritti presentano anche delle ricadute amare, paradossali e divertenti e, nonostante il disegno d’insieme tenda a immortalare causticamente il ceto medio danese, alla lunga emerge anche un buon margine di umanità. Il film vorrebbe darsi un tono a tratti filosofico e non a caso si apre con una frase del pensatore danese Søren Kierkegaard (“Cos’è la giovinezza? Un sogno. Cos’è l’amore? Il contenuto del sogno”), ma il copione firmato da Tobias Lindholm e Vinterberg e la messa in scena di livello di quest’ultimo, molto intenso nel tallonare tutti i personaggi con i detriti stilistici visibili ma ormai canonizzati e “imborghesiti” del Dogma 95 che fu, appaiono più sferzanti ed efficaci quando si giocano la carta della satira gaudente e dello sberleffo sociale e di costume, dalle insolite e inaspettate ricadute emotive virate al nero. Il messaggio di fondo che Un altro giro veicola può apparire alla fine un po’ facile e superficiale (specie considerando l’arco narrativo piccolo ma decisivo di uno studente), ma il meccanismo dettato dalla fortissima idea di fondo è esplosivo e finisce con l’investire non solo le capacità psico-motorie e socio relazionali dei personaggi, ma anche la totalità della loro sfera emotiva (aspetto invece sorprendente, se pensato in relazione alla radiografia delle precedenti opere del regista). Esilaranti gli inserti di repertorio di politici noti, da Clinton a Sarkozy passando per Angela Merkel, alle prese con momenti pubblici che sembrano rievocare il guanto di sfida lanciato a se stessi dai protagonisti che arrivano a celebrare addirittura il funerale della Danimarca attraverso una scena a misura di bambino di grande impatto metaforico e provocatorio, e strepitosa la liberatoria sequenza finale di ballo sulle note del brano originale What a Life. Imperiosa interpretazione di Mads Mikkelsen, che tocca l’apice della sua carriera e si conferma interprete dotato di carisma e impatto fisico non comune, ma anche di sottilissime e infinitesimali sfumature espressive, a suo agio tanto nei momenti più leggiadri (come la sequenza scolastica con “protagonisti” Churchill, Roosevelt e...Hitler) tanto nei non pochi frangenti disperati, rabbiosi e dolorosi. Inserito nella Selezione Ufficiale del Festival di Cannes 2020, anno in cui il festival non si è svolto, e presentato in seguito alla Festa del Cinema di Roma.
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