Un uomo dice di chiamarsi Jean Robin (Jean-Louis Trintignant), ma poi torna sui suoi passi e palesa un'altra identità, quella di Boris Varissa. Il tutto in un posto di montagna dove è appena arrivato, un luogo che ha rivestito una determinante importanza strategica nel corso della Seconda guerra mondiale. Un film che riflette sul concetto di narrazione, sul suo potere di rappresentare la realtà e di determinare l'individualità del singolo mettendone a fuoco le prerogative più intime ma anche le nevrosi e le dissociazioni interne. Ancora una volta, dopo il gioco cinefilo e intellettualistico di Trans-Europ-Express (1966), Alain Robbe-Grillet dà l'idea di voler smontare il meccanismo per mostrare il "backstage" di qualsiasi costruzione narrativa e rendendola (pertanto) alterata rispetto alla realtà. Che sia proprio ciò che sembra vero e reale più di tutto il resto, la più grande forma di mistificazione e di menzogna? Robbe-Grillet lavora su questo interrogativo, soffermandosi sulla frammentazione e sulla possibilità, sull'alterazione e sulla moltiplicazione dei punti di vista. Trintignant (premiato al Festival di Berlino) occupa con la solita classe la centralità della scena, l'operazione è di per sé carica di ragioni di interesse e di fascino, ma il risultato è un punto interrogativo gigantesco: lo sceneggiatore de L'anno scorso a Marienbad (1961) pare alle prese con una masturbazione autoriale, di gran classe e sopraffino livello artistico, ma anche inevitabilmente confinata nei margini del proprio autoerotismo. Una tentazione mai messa da parte, che genera anche passaggi macchinosi e soluzioni rivedibili. Un peccato, per un film che comunque gioca in anticipo sui tempi, guarda già al postmoderno e riveste, in rapporto all'epoca, una certa importanza storica e teorica.