Venere nera
Vénus noire
2010
Paesi
Francia, Belgio
Generi
Biografico, Drammatico
Durata
162 min.
Formato
Colore
Regista
Abdellatif Kechiche
Attori
Yahima Torres
Andre Jacobs
Olivier Gourmet
Elina Löwensohn
François Marthouret
Michel Gionti
Storia vera di Saartjie Baartman (Yahima Torres), una donna originaria del Sudafrica, che sbarca in Inghilterra nel 1810 per diventare la celebre “venere ottentotta”. Suo malgrado, diventerà un fenomeno da baraccone, poiché incarnava agli occhi degli spettatori tutti gli stereotipi del selvaggio, prima di suscitare l'interesse degli scienziati per via dei suoi enormi genitali e di morire prematuramente, forse, a causa della sifilide.
Dopo l'ottimo Cous cous (2007), Abdellatif Kechiche dirige un biopic anticonvenzionale e coraggioso, incentrato su uno dei freak più popolari dell'Ottocento. Il regista punta su lunghe sequenze che durano quanto un'intera esibizione da baraccone, rendendo evidente l'approccio ossequioso del cineasta di origine tunisina nei confronti della storia raccontata e del soggetto: un approccio che, però, finisce per lasciare eccessivo spazio a spettacoli e balletti che risultano ridondanti e prolissi. Peccato, perché la confezione è di buon livello e la prima parte, così come quella finale, apre a riflessioni particolarmente interessanti, e ancora oggi attuali, sul tema del razzismo e della paura di ciò che è diverso. La drammatica odissea della protagonista, il suo scivolare lento e inesorabile verso il vicolo cieco della degradazione totale e dell'assuefazione, è intenso e incisivo ma non riesce fino in fondo a far presa sullo spettatore, a cui viene inconsapevolmente affidato il ruolo di passivo voyeur: ed è forse questo l'elemento più forte e suggestivo di un'operazione che parla proprio dell'“atto del guardare”, come metafora anche del cinema stesso, mettendo a nudo l'insensibilità di chi osserva (oggi come allora) un essere umano ridotto a puro animale da circo per il proprio sollazzo.
Dopo l'ottimo Cous cous (2007), Abdellatif Kechiche dirige un biopic anticonvenzionale e coraggioso, incentrato su uno dei freak più popolari dell'Ottocento. Il regista punta su lunghe sequenze che durano quanto un'intera esibizione da baraccone, rendendo evidente l'approccio ossequioso del cineasta di origine tunisina nei confronti della storia raccontata e del soggetto: un approccio che, però, finisce per lasciare eccessivo spazio a spettacoli e balletti che risultano ridondanti e prolissi. Peccato, perché la confezione è di buon livello e la prima parte, così come quella finale, apre a riflessioni particolarmente interessanti, e ancora oggi attuali, sul tema del razzismo e della paura di ciò che è diverso. La drammatica odissea della protagonista, il suo scivolare lento e inesorabile verso il vicolo cieco della degradazione totale e dell'assuefazione, è intenso e incisivo ma non riesce fino in fondo a far presa sullo spettatore, a cui viene inconsapevolmente affidato il ruolo di passivo voyeur: ed è forse questo l'elemento più forte e suggestivo di un'operazione che parla proprio dell'“atto del guardare”, come metafora anche del cinema stesso, mettendo a nudo l'insensibilità di chi osserva (oggi come allora) un essere umano ridotto a puro animale da circo per il proprio sollazzo.
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