La piccola Lucilla Attorre soffre di asma e appare subito evidente che sia un'affezione psicosomatica: la madre Susi (Micaela Ramazzotti), insegnante di danza, è sempre di corsa, dimentica le proprie cose dappertutto e trascina qua e là la sua bambina come un carrello della spesa; il padre Luca (Adriano Giannini) è un giornalista freelance con un debole recidivo per le donne.
Tragicommedia corale d’impianto borghese diretta da Francesca Archibugi, Vivere prova a fotografare la frenesia e il disagio di una generazione di quarantenni ostaggio di una precarietà affannata e di un’ipocrisia dilagante, pronta a fagocitare a più riprese desideri e sentimenti, sogni sfioriti e semplici eventi quotidiani. La regista, affiancata da Paolo Virzì e Francesco Piccolo in sede di sceneggiatura, gioca d’accumulo a partire dal patema fisico della bambina protagonista – un evidente contrappunto metaforico del tono e del ritmo del film – e fa vorticare in maniera forsennata le traiettorie dei propri personaggi, spremendo fino all’osso eccessi melodrammatici e psicologie allo sbando. Il quadro d’insieme si fa così inutilmente sovraccarico, con l’aggiunta ulteriore del personaggio di Mary Ann (Roisin O’Donovan), irlandese e studentessa di storia dell’arte, oltre che ragazza alla pari destinata a minare i già fragili equilibri degli Attorre e a uscire ridimensionata dalla sua esperienza italiana. Il punto di vista e l’adesione etica del film propende evidentemente per il suo punto di vista, ma la gratuità dell’incrocio di vitalità e imbarazzo proposto dall’evolversi della storia suona quasi sempre arruffato e pretestuoso. La Ramazzotti si limita a replicare il consueto personaggio della svampita dal cuore d’oro e vessata da tutti, soprattutto dalle proprie stesse mancanze e ingenuità, mentre Giannini è più ruspante e stimolante nei panni del giornalista web che s’inventa assurdi articoli di colore in cui fa triangolare fake news, concorsi di bellezza e meteoriti pronti a scagliarsi sulla Terra. Piccola parte, nei panni del vicino di casa meridionale e voyeur, per Marcello Fonte, che si limita a replicare quanto fatto in Dogman (2018) inserendo la medesima caratterizzazione in un contesto sulla carta più docile e rassicurante (al posto dei cani feroci, a questo giro, nelle gabbie di casa sua troviamo degli innocui criceti). Presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia 2019.