La famiglia Nicholson divide i propri spazi abitativi col servo di colore Whity (Günther Kaufmann). Questi, però, non è altro che un burattino piegato ai loro fini sadici e alle più svariate macchinazioni, finalizzate al proprio soddisfacimento personale e rivolte anche contro gli altri membri del nucleo familiare.
Ambientato nel 1878, Whity è un melodramma in interni girato in un fiammeggiante formato cinemascope, che porta l'uso del colore a uno dei massimi livelli mai raggiunti da Fassbinder nella sua carriera. Il regista bavarese non ha mai nascosto la sua passione per il cinema americano, del quale ha introiettato tutti gli stilemi, dalla languida compostezza formale dei film di Douglas Sirk, fino al piacere scanzonato per un cinema di genere più godereccio e lontano dall'impegno o dallo sbandierare il proprio sentimentalismo. In questo caso Fassbinder dà vita a una narrazione incredibilmente rapsodica ed episodica, che lavora su un'estetica da saloon, filtrandola con gli occhi di una sensibilità germanica (le sequenze che vedono protagonista una radiosa Hanna Schygulla), omaggiandola ed appropriandosene al tempo stesso. Il tema fondante, ovvero la segregazione razziale, è anch'esso molto a stelle e strisce nella sua quintessenza, ma Fassbinder lo rilegge con la consueta attenzione per i rapporti di forza e il degrado patologico delle psicologie umane: non fa una grinza, ma è tutto troppo preordinato e non tutti i momenti sono riusciti. Il risultato è discreto, ma si poteva fare di più.