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James Gray – Il cinema come spettacolare viaggio interiore oltre i confini dell'emozione
Tra i titoli imperdibili del concorso della 75ª edizione del Festival di Cannes c'è sicuramente Armageddon Time, il nuovo attesissimo film di James Gray. Tre anni dopo Ad Astra, il regista statunitense porta sulla croisette un’opera dal titolo ingannevole nel richiamare un orizzonte fantascientifico che non ci sarà, dal momento in cui la storia è incentrata su tutt'altro. Oltre, come sempre, a un comparto tecnico di ottimo livello (con Darius Khondji che torna a curare la fotografia), il cast del film è davvero di primissimo piano, e vede Anthony Hopkins condividere la scena con Anne Hathaway e Jeremy Strong

Regista e sceneggiatore statunitense, Gray, di famiglia ebraica ucraina, cresce nel quartiere del Queens e nel 1991 si laurea alla scuola di cinema della University of Southern California. Amante della pellicola e della natìa New York, e da sempre ossessionato dall’indagine sulle complicate relazioni padre-figlio, giunge con Armageddon Time alla sua quinta apparizione sulla croisette, dove mancava dal 2013 (The Yards, I padroni della notte, Two Lovers e C'era una volta a New York). Sin qui nessun premio e chissà che questa non possa essere la volta buona: prima di capire cosa aspettarci da quest'ultimo lavoro, ripercorriamo la sua filmografia, fatta di spettacolo, emozione e magistrale padronanza del mezzo cinematografico.




L’esordio al cinema per James Gray arriva nel 1994, a soli 25 anni, con il noir Little Odessa, film che riesce a mettere insieme un cast d'eccezione per un'opera prima: Tim Roth, Vanessa Redgrave, Maximilian Schell ed Edward Furlong. La pellicola, presentata in concorso alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, vince il Leone d'argento - Premio speciale per la regia e la Coppa Volpi per la miglior attrice non protagonista e permette al giovane regista di guadagnarsi le attenzioni dell’industria e la nomea di nuovo wonder boy del cinema americano, venendo paragonato forse troppo prematuramente a Martin Scorsese.

Malgrado questo successo, Gray fatica a realizzare il suo progetto successivo e rifiuta diverse proposte dalle majors per portare avanti la propria idea di cinema. Si devono attendere sei anni per vedere la sua seconda opera seconda, prodotta dalla Miramax, The Yards (2000): il film, presentato in concorso al Festival di Cannes, pur vantando un altro cast di assoluto rilievo (Mark Wahlberg, Joaquin Phoenix, Charlize Theron, James Caan, Faye Dunaway ed Ellen Burstyn) e un budget di due volte maggiore rispetto a Little Odessa non riesce a ripetere l'exploit dell'esordio. Il film omaggio a Claude Chabrol viene accolto tra i fischi del pubblico del Festival, con grande disapprovazione da parte del maestro dei Cahiers che vede nel film forse più di quanto effettivamente presentato.

Nel 2007 Gray realizza il suo terzo film, I padroni della notte, nuovamente presentato in concorso a Cannes e interpretato da Wahlberg e Phoenix, stavolta anche produttori del film (nel cast sono presenti anche Robert Duvall ed Eva Mendes). Con il successivo Two Lovers (inserito nella top 10 dei migliori film del 2008 da parte dei Cahiers du Cinéma) cambia radicalmente genere, passando dal noir metropolitano dei suoi primi tre lavori al dramma sentimentale, ispirato a Dostoevskij, scegliendo ancora come protagonista Phoenix, assieme a Gwyneth Paltrow e Vinessa Shaw.  

Nel 2013 viene scelto come Presidente di Giuria dell’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma dal direttore artistico Marco Müller. Dello stesso anno è C'era una volta a New York, interpretato da Phoenix, questa volta al fianco di Marion Cotillard. Civiltà perduta (2016) è il film di chiusura della 54ª edizione del New York Film Festival ed è stato successivamente presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2017 (Berlinale Special). Ad Astra (2019), viaggio nello spazio con protagonista un tormentato Brad Pitt, presentato in concorso alla 76ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, chiude un dittico di sperimentazione tematica proiettandoci verso l’ottavo lungometraggio.




LITTLE ODESSA (1994)

L'esordio di James Gray (all'epoca venticinquenne), pur affrontando un tema inedito (la mafia russa a Brooklyn), dimostra di essersi fatto le ossa sulla filmografia di Scorsese, mettendo in scena una vicenda che può ricordare alcuni lavori dell'autore di Quei bravi ragazzi (1990). Sotto il segno di un cupo fatalismo, il noir convive con l'asprezza del gangster movie metropolitano, senza trascurare il carattere intimista delle dinamiche familiari: grazie anche all'interpretazione di Roth, Gray costruisce un protagonista tormentato, caratterizzato da un forte approfondimento psicologico. Il distacco dell'autore è evidente nel modo in cui racconta i suoi personaggi, abbandonati in un inferno in terra e costretti a confrontarsi (in tutti i sensi) con le conseguenze delle proprie scelte e delle proprie azioni. Ben presto Gray trascende i generi cinematografici per risalire direttamente ai toni (e ai temi e al sangue) della tragedia classica e il risultato è un'opera prima che non si dimentica. 




THE YARDS (2000)

Il secondo lavoro di Gray si ispira a fatti realmente accaduti che riguardano da vicino la sua famiglia: a metà degli anni Ottanta, il padre del regista restò infatti coinvolto in uno scandalo di corruzione. A sei anni di distanza dal suo esordio, il regista torna su quei temi e, soprattutto, su quei luoghi confermandosi un ottimo narratore metropolitano radicato nel territorio newyorkese. Ma in questo caso il lavoro risulta meno originale, sfiorando a più riprese il cliché. Eppure la pellicola ha guizzi importanti, soprattutto nella descrizione dell'ambiente in cui si muove il protagonista e la confezione audiovisiva è a dir poco suggestiva: pregevoli la fotografia di Harris Savides e la colonna sonora di Howard Shore. Sicuramente imperfetto, ma ugualmente dotato di una forza cinematografica che non si trova tutti i giorni.




I PADRONI DELLA NOTTE (2007)

I padroni della notte segna il ritorno dietro la macchina da presa di James Gray dopo sette lunghi anni di silenzio. Il risultato è un affascinante dramma postmoderno dalle venature tragiche: con un approccio virile e curato in ogni minimo dettaglio, il film spicca per la sua capacità di unire l'azione – con sequenze di inseguimento da applausi – all'introspezione e la tensione alla riflessione familiare. In una New York fotografata da Joaquín Baca-Asay sotto una coltre algida e plumbea, Gray aggiorna il western e il noir, scegliendo però gli anni Ottanta, quasi a rivendicare un cinema (di genere) d'altri tempi. Il classicismo diventa così un orgoglio da ostentare, declinato attraverso tre personaggi maschili in apparenza adamantini, senza che le caratterizzazioni debbano rinunciare al chiaroscuro. Maestoso e potente, tanto dal punto di vista narrativo quanto da quello visivo. Di grande erotismo la sequenza iniziale sulle note di Heart of Glass dei BlondieD, così come le musiche di Wojciech Kilar.




TWO LOVERS (2008)

Con un atto di coraggio impressionante per il cinema hollywoodiano contemporaneo, Gray si allontana per la prima volta dalle atmosfere noir a lui congeniali per concentrarsi su un mélo anomalo, diventato uno dei più significativi e affascinanti esempi di dramma sentimentale d'inizio nuovo millennio. Il regista americano non solo vince la scommessa, ma con Two Lovers segna uno degli approdi più alti e sicuri della sua carriera, un'opera destinata a restare nel tempo in virtù della sua preziosa unicità. Attraverso tre personaggi, Gray racconta ciò che sfugge a qualsiasi classificazione, ovvero le sottili oscillazioni del sentimento umano, con tutto il loro carico di imprevedibilità e dolore. Caricando New York dello spleen del protagonista (indimenticabile la sequenza nel ristorante che lo inquadra da solo, sullo sfondo, tra le note di Lujon) e muovendosi in perfetto equilibrio tra territori da cinema indipendente e l'onda emotiva da produzioni mainstream, la storia di Leonard (Phoenix) si dipana tra piccoli eventi che il regista riempie di una profondità nuova e insieme intimamente inserita nel tracciato della più pura tradizione a stelle e strisce degli anni Sessanta. Tra Cassavetes e Carver, e con un occhio al languore dell'Antonioni più indimenticabile, il protagonista si muove realisticamente tra due sentimenti coesistenti, tra due pulsioni complementari. L'amore per le donne che lo circondano (alle amanti si aggiunge la madre interpretata da un'incisiva Isabella Rossellini), regolato da dinamiche contraddittorie, non concede la scelta, ma sceglie, implacabilmente, per lui. Un'opera straordinariamente ellittica, controllatissima dal punto di vista formale che rifiuta ogni approccio convenzionale a un tema (e a una condizione esistenziale) di rara intensità. E l'indimenticabile sguardo finale di Phoenix (davvero bravissimo) fotografa la realistica compresenza di felicità e rimpianto propria di ogni svolta della vita di un uomo. Meraviglioso.




C'ERA UNA VOLTA A NEW YORK (2013)

Il quinto lungometraggio di Gray è un neo-mélo raffreddato che congiunge America e vecchio continente in una storia d'amore e redenzione dalle emozioni trattenute e sussurrate. La narrazione ellittica ha il pregio di non enfatizzare gli eccessi melodrammatici ma, allo stesso tempo, impedisce un pieno coinvolgimento emotivo. Alla dura realtà si contrappone la rappresentazione teatrale (gli spettacoli organizzati da Bruno, quello nella prigione che introduce Orlando), nella cui finzione si riflette il desiderio di evasione e la speranza di riscatto di Ewa (Marion Cotillard), che passa dalla magia e dall'illusione («Non perdete la fiducia, non perdete la speranza, il sogno americano vi aspetta»). Il travaglio della protagonista alla ricerca di salvezza è assecondato con sguardo pudico e rispettoso, come nei migliori ritratti femminili privi di inutili forzature. Importante dimensione religiosaÈ un peccato per me voler sopravvivere?»), che trova nella notevole sequenza della confessione la sua massima resa espressiva. Insistita presenza di specchi e immagini riflesse che, nella splendida inquadratura finale, diventa sublime perfezione formale. Regia impeccabile, il cui algido rigore diventa spesso freddo classicismo e bellissima fotografia di Darius Khondji (sul filo della maniera) che dà vita a una suggestiva rievocazione d'epoca. Alla fine, però, la sensazione è che la cornice valga più del quadro.




CIVILTÀ PERDUTA (2016)

Tratto da un romanzo di David Grann e ispirato alla vera storia di Percy Fawcett, Civiltà perduta segna per Gray l’abbandono del contesto metropolitano che è sempre stato al centro del suo cinema. Se già con C’era una volta a New York (2013) aveva diretto un lungometraggio storico e in costume, con questa sua sesta opera sembra distanziarsi ancora di più dai suoi lavori precedenti (in fondo, il film del 2013 parlava ancora di immigrati negli Stati Uniti: argomento da sempre al centro del cinema del regista newyorkese). La giungla amazzonica diventa per l’ennesima volta lo spazio di un’ossessione nei confronti dell’ignoto, di un’esplorazione che tanto può ricordare Aguirre, furore di Dio (1972) e Fitzcarraldo (1982) di Werner Herzog. Questo tentativo di tornare a un “cinema del passato”, per nulla classico ma pienamente “moderno”, è sottolineato dalla fotografia di Darius Khondji, abile a ricreare l’atmosfera di un tempo che fu ma non sempre efficace nel trasmettere la fascinazione che i personaggi provano per il paesaggio della giungla. Se il talento di Gray riesce a incorniciare la pellicola con un inizio e una conclusione degna del suo nome, quasi mai la forza visiva della sua regia si fa notare in tutto quello che sta in mezzo. Ridondante e prolissa, la parte centrale non riesce a coinvolgere come dovrebbe e, fatto ancor più grave, si fatica a provare empatia per il personaggio principale, per la sua ricerca e per il suo spirito d’avventura. In un cast che risulta poco intenso, quello che s’impegna di più è il protagonista Charlie Hunnam. Curiosità: prima dello stesso Hunnam per il ruolo di Fawcett era stato scelto inizialmente Brad Pitt, che ha poi rifiutato rimanendo solo in veste di produttore, e poi Benedict Cumberbatch, che ha dovuto abbandonare la produzione pochi giorni prima dell’inizio delle riprese per conflitti di lavoro.




AD ASTRA (2019)

Dopo aver affrontato la sfida dell’uomo nei confronti della Natura selvaggia, Gray si spinge nel futuro prossimo venturo affrontando di petto la fantascienza e scegliendo ancora una volta come protagonista un uomo costretto a fare i conti con i propri dubbi e le proprie ossessioni emotive. Il risultato è un’opera dal respiro classico che, con ritmo disteso e spesso contemplativo, si nutre dei codici della sci-fi più matura per mettere in scena un racconto profondamente intimo che guarda allo spazio come a un non-luogo al di fuori della realtà percepita, tanto affascinante quanto oscuro nella sua maestosa e intimidatoria grandezza. Il presente di Roy Mc Bride (Brad Pitt) si lega a doppia mandata a un passato con cui confrontarsi di continuo, in un gioco di rinascita e riscatto che vede la figura del padre (Tommy Lee Jones) come un elemento centrale della storia. Gray, anche co-sceneggiatore insieme a Ethan Gross, carica la vicenda di un pathos talmente pronunciato da risultare a volte ridondante (anche per via di un generoso uso della voice over che esplicita i sentimenti del protagonista), attingendo a piene mani a una genuina retorica che immerge completamente lo spettatore nella narrazione. Un film tutto di cuore, orgogliosamente fuori dal tempo per atmosfera e approccio di scrittura, in grado di far riflettere sull’importanza degli affetti, sull’imperscrutabile fascinazione per l’ignoto, sul senso di conquista individuale, sui legami di sangue e sulla memoria. Qua e là, le buone intenzioni sono compromesse da scelte abbastanza discutibili che rischiano di apparire goffe, soprattutto verso il finale, ma la volontà di scavare negli istinti primordiali dell’uomo (la presenza fugace delle scimmie è molto significativa in questo senso), colpisce nel segno. Il sottotesto filosofico rischia di essere a tratti un po’ spicciolo, ma l’atmosfera generale regge su tutta la linea. Splendida fotografia di Hoyte van Hoytema ed efficaci musiche di Max Richter.




ARMAGEDDON TIME (2022)

E cosa ci aspetta a Cannes 2022? Gray ritorna sulla croisette con una storia di formazione che esplora l'amicizia e la lealtà, il bigottismo e la tensione razziale, sullo sfondo di un'America pronta a eleggere Ronald Reagan come presidente... temi quanto mai rilevanti negli States del recentissimo passato. Ecco quindi per concludere una sinossi ufficiale dai richiami evidentemente autobiografici (almeno nella scrittura del protagonista):

Queens, New York. Anni '80. Paul Graff, 12 anni, sta crescendo in una famiglia turbolenta con suo nonno che incoraggia le sue aspirazioni artistiche. Il suo migliore amico è John Crocker, un ragazzo afroamericano. I due sono inseparabili e inclini a malefatte, ma dopo un incidente con la giustizia in cui John e Paul condividono "tea that makes you laugh" (marijuana), i genitori di Paul decidono di trasferirlo alla scuola privata frequentata da suo fratello maggiore Ted. Qui, il corpo studentesco è quasi esclusivamente bianco, privilegiato e prevenuto (è non a caso anche l'alma mater di Donald Trump). Insieme, i ragazzi escogitano un piano rischioso per sfuggire alle loro vite e scappare in Florida.





Andrea Valmori 

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