Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico cinese, nato a Shanghai il 17 luglio 1958, Wong Kar-wai è il punto più alto dell'incontro tra il cinema europeo e quello orientale, capace di unire alla perfezione istanze provenienti dalla Nouvelle Vague francese, suggestioni visive sperimentali e contemplazione sulla natura del sentimento umano.
Un autore di importanza capitale per capire il presente, influente come pochi, preso a modello da schiere di cineasti contemporanei. Quello di Wong è cinema allo stato puro, limpido e cristallino, che vive di vibranti emozioni al di là del solco tracciato dalla sceneggiatura, guardando alla lezione di maestri come Michelangelo Antonioni e Martin Scorsese. Unico e irripetibile.
Andiamo a ripercorrere la sua straordinaria carriera attraverso una classifica di vertiginosa bellezza, in un viaggio oltre i confini dell'impossibile.
10) Un bacio romantico (2007)
Dopo il successo mondiale di In the Mood for Love e 2046, il cinema di Wong Kar-wai, da puro oggetto cinefilo, diventa vero e proprio simbolo di coolness e stile autoriale (tanto che il regista è chiamato a realizzare molti spot pubblicitari). Ecco quindi, inevitabile, la prima trasferta internazione in una co-produzione euroasiatica interamente girata in Usa, con un cast di stelle di Hollywood e, per la prima volta in veste di attrice, la popstar Norah Jones. Come per Wim Wenders in Paris, Texas (1984) e per Paolo Sorrentino in This Must Be The Place (2011), è troppo forte la tentazione di dare la propria versione di un genere tipicamente americano come il road-movie. Accarezzato da una colonna sonora strepitosa che mescola Otis Redding, Cat Power, Ry Cooder, la stessa Jones e perfino un'autocitazione del tema di In the Mood for Love, Un bacio romantico è un prodotto di indubbio fascino visivo. Sotto la confezione però c'è poca sostanza, l'immaginario del regista cinese è qui troppo scollato dal cinema occidentale per restituire la stessa spontaneità presente nei suoi film cantonesi. I continui ralenti – marchio di fabbrica del regista – in questo caso finiscono per risultare pedanti. Terribile il titolo italiano, che snatura la poesia di quello originale, My Blueberry Nights.
9) As Tears Go By (1988)
In una Hong Kong nel bel mezzo della sua stagione filmica più prolifica, dominata dalla rivoluzione stilistica della seconda New Wave e dal cinema ipertrofico di John Woo, si affaccia, per la prima volta in cabina di regia, un autore giovane e promettente reduce da un decennio di gavetta come sceneggiatore. La pellicola di esordio di Wong Kar-wai va a collocarsi nel corposo filone del gangster movie, ma lo ibrida con gli stilemi del mélo intimista, costruendo un evidente omaggio a Mean Streets (1973) di Martin Scorsese. Nella sua opera senz'altro più acerba, il regista imprime comunque un'impronta inconfondibile e lascia intravedere i segni di un talento seminale, regalandoci tante sequenze cult. I classici temi delle crime story (l'amicizia virile, la vana ricerca di redenzione nell'amore) passano così attraverso la lente deformante di una visione irriducibilmente romantica e disperata, arricchita da virtuosismi tecnici (come lo step-framing) che diverranno tratto distintivo del cinema wonghiano. Con una sequenza d'amore, sulle note di Take My Breath Away coverizzata da Sandy Lam, che resta impressa nella mente e nel cuore.
8) Angeli perduti (1995)
Wong Kar-wai sviluppa idee rimaste inutilizzate in Hong Kong Express, realizzando una sorta di spin-off che ha in comune anche uno degli attori protagonisti (Takeshi Kaneshiro). Stavolta le due storie non sono giustapposte, ma scorrono in montaggio alternato: speculare e ancora più psichedelico rispetto al predecessore, è un film altalenante che non esita a pescare dall'immaginario del cinema di genere (soprattutto il gangster-movie) per decontestualizzarlo definitivamente, e ricreare gli stilemi del linguaggio da videoclip contaminandoli con l'influenza del cinema d'autore europeo. Una Hong Kong notturna e acida è trasfigurata nell'inconfondibile universo wonghiano popolato da personaggi disfunzionali, in cui i dettagli si fanno elementi estetici (dalle onnipresenti sigarette al jukebox, presenza ricorrente nel cinema del regista). Gli “angeli” di Wong, tra cui spiccano soprattutto l'asociale e bellissima Michelle Reis e l'irresistibile pazzoide Kaneshiro, sono condannati all'incomunicabilità a dispetto del loro disperato bisogno d'amore. A tratti fin troppo azzardato nella sua messinscena, il film enfatizza l'uso di step-framing e angolature deformi: può così risultare irritante per chi non ama lo stile di Wong, ma altrettanto trascinante per i suoi fan.
7) Days of Being Wild (1990)
L'opera seconda di Wong Kar-wai segna la definitiva presa di distanza del regista dal cinema di genere: siamo nei territori del melodramma sentimentale, è vero, ma Wong ne opera un'evidente destrutturazione in nome di uno stile personale e di una peculiare modalità di lavorazione con cui insegue il più puro autorialismo (script in costante mutamento anche durante le riprese, tempi di produzione lunghissimi). Ci cala nel suo universo di anime bisognose d'amore dominato dall'inesorabile scorrere del tempo, ma la perfezione formale non basta a rendere il film memorabile. Il fascino è innegabile, ma la pellicola si contorce eccessivamente su se stessa, soprattutto nella parte centrale. Ottimi spunti visivi che il regista farà maturare nei suoi lavori successivi. In un cast all star, Maggie Cheung (a fianco del regista anche nel precedente As Tears Go By) è già splendida musa, mentre il compianto Leslie Cheung (che girerà con Wong anche Happy Together e morirà suicida nel 2003), è perfetto volto wonghiano in una Hong Kong anni '60 dal fascino languido. Nel finale appare un misterioso personaggio impersonato da Tony Leung Chiu Wai: il suo nome è Chow e lo ritroveremo in In the Mood for Love e in 2046 dello stesso autore, coi quali questo film tesse sottili e intriganti legami.
6) Happy Together (1997)
Maestro del cinema contemporaneo nel raccontare le sfumature del sentimento, Wong Kar-wai si cimenta per la prima volta con una storia d'amore omosessuale. Che, esattamente come quello etero da lui più volte rappresentato, è sofferto, tormentato, destinato alla scadenza. Appassionato e frenetico come la colonna sonora che mescola tango (Piazzolla, Veloso) e rock (Frank Zappa, la cover di Danny Chung dell'omonima canzone dei Turtles che dà il titolo al film), è certamente più discontinuo e imperfetto di altri lavori di Wong e la sensazione di aver di fronte un esercizio di stile (seppur ben fatto: ottima la fotografia di Christopher Doyle) prende spesso il sopravvento. Al di là della componente estetica, l'opera è però interessante non solo per come si tiene alla larga dagli stereotipi tipici dell'universo queer (quanto sono virili e autentici i personaggi di Leung e Cheung), ma soprattutto perché, a una lettura più profonda, rispecchia il disagio del popolo di Hong Kong di fronte all'imminente handover, ovvero il passaggio dell'ex colonia a regione amministrativa cinese (avvenuto il 30 giugno 1997). Non è un caso che i protagonisti siano degli esuli volontari afflitti da un senso di attrazione-repulsione verso la madrepatria, quasi Wong abbia voluto esorcizzare il trauma politico andando a girare dall'altra parte del mondo e trasformando le bellezze di un paesaggio a lui alieno (le cascate dell'Iguaçù, la Terra del Fuoco) in luoghi dell'anima. Il film è valso al regista il premio per la miglior regia al Festival di Cannes 1997.
5) Ashes of Time (1994)
Terzo film di Wong Kar-wai, è considerato uno dei suoi migliori, certamente il più ambizioso della prima parte di carriera. Tecnicamente appartiene al genere wuxiapian, che nel cinema cinese e honkonghese è il film di arti marziali in costume, paragonabile secondo molti all'occidentale "cappa e spada". Ma al regista non interessano intrighi, duelli, tenzoni in nome dell'onore cavalleresco: gli scontri sono ridotti a favore dei dialoghi e del complesso intreccio che si dipana intorno a un incredibile numero di protagonisti (interpretati dalle più grandi star di Hong Kong) e s'incentra sull'amore. Impossibile, negato, sofferto, indimenticato. La lavorazione travagliata, compiuta nel deserto cinese tra mille difficoltà produttive (tanto che fu necessaria una pausa in cui Wong girò Hong Kong Express, uscito lo stesso anno) si riflette in un senso di evanescenza che percorre tutto il film: tra folate di vento, polvere, carezze e ricordi inestinguibili, si sviluppa, con largo uso di ralenti, un'opera unica, audace e affascinante dove Akira Kurosawa incontra Douglas Sirk, Sergio Leone e Robert Bresson. Peccato che l'edizione originale sia stata colpevolmente trascurata fino alla sua completa rovina (ne sopravvivono solo pessime edizioni home video), tanto da spingere il regista a rimontare il film, tagliando alcune parti irrimediabilmente compromesse e modificando la colonna sonora: la nuova versione, Ashes of Time Redux (di 93 minuti) è stata presentata nel 2008 al 61° Festival di Cannes e successivamente editata in DVD.
4) The Grandmaster (2013)
Presentato alla Berlinale 2013 dopo otto anni di lavorazione, il film commercialmente più ambizioso di Wong Kar-wai segna il suo ritorno al cinema di genere a quasi vent'anni da Ashes of Time, nonché l'insolita scelta di raccontare una figura cardine dell'iconografia orientale qual è Ip Man, celebre mentore di Bruce Lee. Senza mai tralasciare la sua personalissima estetica raffinata, Wong procede per episodi ed ellissi componendo un affresco sontuoso di vent'anni di Storia cinese che è, al contempo, uno struggente racconto intriso di nostalgia come un kolossal mélo d'altri tempi. La minuziosità di scenografie e costumi fa girare la testa, la fotografia incanta con i suoi colori ipersaturi alternati a toni più bui, mentre i combattimenti sono affidati a Yuen Wo Ping, coreografo di Matrix (1999). Ma, che sia una scena d'azione, un dialogo o uno dei repentini scorci storici che infiammano la narrazione, è Wong a imprimere la sua impronta inconfondibile: è così che un duello si trasforma in balletto d'amore o in sinfonia di morte tra i vagoni di un treno infinito, e il tramonto dei sogni e di un'epoca viene celebrato nel segno del grande Cinema, citando Leone e addirittura il tema musicale del suo C'era una volta in America (1984). In un trionfo della forma che è certamente manierismo, ma di alta classe. Cast strepitoso, a partire da un'intensa Zhang Ziyi. La versione internazionale è modificata di alcune parti e dura solo 122 minuti.
3) 2046 (2004)
In the Mood for Love, probabilmente il primo cult del nuovo millennio, azzera in un certo senso la carriera di Wong Kar-wai, da allora costretto a confrontarsi continuamente con il suo massimo capolavoro. Ce ne regala un sequel che è l'antitesi del film precedente: se In the Mood for Love si muove in sottrazione, 2046 è una densa sinfonia baroccheggiante che rovescia il personaggio di Chow, moltiplica le figure femminili e i momenti erotici (forse mai così espliciti nel cinema di Wong) e frantuma la narrazione, disgregando spesso la linea temporale e intrecciando la realtà con la visionaria dimensione futuristica creata dalla penna del protagonista. È senz'altro il trionfo del manierismo wonghiano all'ennesima potenza: ma la bellezza mozzafiato dei suoi frame pieni di colori, curve e sguardi, la poesia che traspare dai personaggi imprigionati nei propri ricordi e la sua amara allegoria politica (il 2046 è anche l'ultimo anno di “libertà” di Hong Kong prima del definitivo passaggio alla Cina) rendono l'opera un'esperienza unica e vibrante. Cast in splendida forma, a partire dal protagonista Tony Leung Chiu Wai.
2) Hong Kong Express (1994)
L'amore secondo Wong Kar-wai, raccontato con sguardo lucido nel film che lo ha definitivamente consacrato come autore venerato a livello internazionale. Amore con una data di scadenza come un barattolo di ananas, amore come dolce e folle ossessione, in cui un oggetto o una canzone si fanno veicolo di una dichiarazione di innamoramento. Nonostante la sua leggerezza non si tratta una semplice commedia sentimentale, ma di un'opera disarmante per la sua unicità, che con stile vertiginoso e postmoderno ritrae la complessità degli affetti in un mondo contemporaneo consumista che viaggia a ritmo accelerato. Il Chunking Mansions, noto complesso residenziale hongkonghese brulicante di vita, è il microcosmo dove si muovono personaggi unici, perduti in dolori e deliri amorosi, nella ripetitività dei gesti, nel tormento per love story finite o illusorie. Un cult irresistibile che si muove tra due canzoni simbolo, California Dreamin' dei The Mamas & The Papas e Dreams dei Cranberries. Quest'ultima è coverizzata dalla stessa Faye Wong, popstar locale alle prese con un ruolo indimenticabile, mentre i divi Tony Leung e Takeshi Kaneshiro donano alla figura del poliziotto, topos del cinema cantonese, un'inedita allure romantica. Clamoroso.
1) In the Mood for Love (2000)
Maggie Cheung che cammina, divina ed elegantissima; Tony Leung affascinante e assorto con l'immancabile sigaretta tra le dita. Tutto rigorosamente al ralenti, con in sottofondo l'avvolgente Yumeji's Theme di Shigeru Umebayashi o le note di Quizás,Quizás,Quizás cantate da Nat King Cole, a sottolineare una passione che non può essere sfogata. Bastano queste immagini, reiterate con immensa eleganza in un film che racconta l'amore senza la necessità di esibirlo, a consacrare il miglior lungometraggio di Wong Kar-wai nell'immaginario cinematografico del Nuovo millennio. Il regista abbandona il postmodernismo convulso dei precedenti film (Angeli perduti ne è un esempio lampante) a favore di una narrazione dilatata che privilegia le ellissi, senza trascurare virtuosismi tecnici sapientemente dosati. La sua è una costruzione perfezionistica dello spazio che si sofferma continuamente sui dettagli, mentre la slow motion si fa correlativo oggettivo dei sentimenti. In una Hong Kong dal fascino rétro rappresentata quasi esclusivamente per interni (eccetto per il bellissimo epilogo ambientato al tempio di Angkor Wat, in Cambogia), Leung e Cheung sono meravigliosi e sprigionano sensualità a ogni frame. Wong riaggiorna così il mélo e ci consegna un cult assoluto, presentato in concorso al 53° Festival di Cannes dove ha vinto il premio per il miglior attore (Tony Chiu Wai Leung) e il Grand Prix tecnico (alla magistrale fotografia di Christopher Doyle e Ping Bin Lee e al montaggio di William Chang). Inarrivabile.
Un autore di importanza capitale per capire il presente, influente come pochi, preso a modello da schiere di cineasti contemporanei. Quello di Wong è cinema allo stato puro, limpido e cristallino, che vive di vibranti emozioni al di là del solco tracciato dalla sceneggiatura, guardando alla lezione di maestri come Michelangelo Antonioni e Martin Scorsese. Unico e irripetibile.
«Fu un momento imbarazzante, lei se ne stava timida a testa bassa per dargli l'occasione di avvicinarsi, ma lui non poteva non ne aveva il coraggio, allora lei si voltò e andò via» (In the Mood for Love, 2000)
Andiamo a ripercorrere la sua straordinaria carriera attraverso una classifica di vertiginosa bellezza, in un viaggio oltre i confini dell'impossibile.
10) Un bacio romantico (2007)
Dopo il successo mondiale di In the Mood for Love e 2046, il cinema di Wong Kar-wai, da puro oggetto cinefilo, diventa vero e proprio simbolo di coolness e stile autoriale (tanto che il regista è chiamato a realizzare molti spot pubblicitari). Ecco quindi, inevitabile, la prima trasferta internazione in una co-produzione euroasiatica interamente girata in Usa, con un cast di stelle di Hollywood e, per la prima volta in veste di attrice, la popstar Norah Jones. Come per Wim Wenders in Paris, Texas (1984) e per Paolo Sorrentino in This Must Be The Place (2011), è troppo forte la tentazione di dare la propria versione di un genere tipicamente americano come il road-movie. Accarezzato da una colonna sonora strepitosa che mescola Otis Redding, Cat Power, Ry Cooder, la stessa Jones e perfino un'autocitazione del tema di In the Mood for Love, Un bacio romantico è un prodotto di indubbio fascino visivo. Sotto la confezione però c'è poca sostanza, l'immaginario del regista cinese è qui troppo scollato dal cinema occidentale per restituire la stessa spontaneità presente nei suoi film cantonesi. I continui ralenti – marchio di fabbrica del regista – in questo caso finiscono per risultare pedanti. Terribile il titolo italiano, che snatura la poesia di quello originale, My Blueberry Nights.
9) As Tears Go By (1988)
In una Hong Kong nel bel mezzo della sua stagione filmica più prolifica, dominata dalla rivoluzione stilistica della seconda New Wave e dal cinema ipertrofico di John Woo, si affaccia, per la prima volta in cabina di regia, un autore giovane e promettente reduce da un decennio di gavetta come sceneggiatore. La pellicola di esordio di Wong Kar-wai va a collocarsi nel corposo filone del gangster movie, ma lo ibrida con gli stilemi del mélo intimista, costruendo un evidente omaggio a Mean Streets (1973) di Martin Scorsese. Nella sua opera senz'altro più acerba, il regista imprime comunque un'impronta inconfondibile e lascia intravedere i segni di un talento seminale, regalandoci tante sequenze cult. I classici temi delle crime story (l'amicizia virile, la vana ricerca di redenzione nell'amore) passano così attraverso la lente deformante di una visione irriducibilmente romantica e disperata, arricchita da virtuosismi tecnici (come lo step-framing) che diverranno tratto distintivo del cinema wonghiano. Con una sequenza d'amore, sulle note di Take My Breath Away coverizzata da Sandy Lam, che resta impressa nella mente e nel cuore.
8) Angeli perduti (1995)
Wong Kar-wai sviluppa idee rimaste inutilizzate in Hong Kong Express, realizzando una sorta di spin-off che ha in comune anche uno degli attori protagonisti (Takeshi Kaneshiro). Stavolta le due storie non sono giustapposte, ma scorrono in montaggio alternato: speculare e ancora più psichedelico rispetto al predecessore, è un film altalenante che non esita a pescare dall'immaginario del cinema di genere (soprattutto il gangster-movie) per decontestualizzarlo definitivamente, e ricreare gli stilemi del linguaggio da videoclip contaminandoli con l'influenza del cinema d'autore europeo. Una Hong Kong notturna e acida è trasfigurata nell'inconfondibile universo wonghiano popolato da personaggi disfunzionali, in cui i dettagli si fanno elementi estetici (dalle onnipresenti sigarette al jukebox, presenza ricorrente nel cinema del regista). Gli “angeli” di Wong, tra cui spiccano soprattutto l'asociale e bellissima Michelle Reis e l'irresistibile pazzoide Kaneshiro, sono condannati all'incomunicabilità a dispetto del loro disperato bisogno d'amore. A tratti fin troppo azzardato nella sua messinscena, il film enfatizza l'uso di step-framing e angolature deformi: può così risultare irritante per chi non ama lo stile di Wong, ma altrettanto trascinante per i suoi fan.
7) Days of Being Wild (1990)
L'opera seconda di Wong Kar-wai segna la definitiva presa di distanza del regista dal cinema di genere: siamo nei territori del melodramma sentimentale, è vero, ma Wong ne opera un'evidente destrutturazione in nome di uno stile personale e di una peculiare modalità di lavorazione con cui insegue il più puro autorialismo (script in costante mutamento anche durante le riprese, tempi di produzione lunghissimi). Ci cala nel suo universo di anime bisognose d'amore dominato dall'inesorabile scorrere del tempo, ma la perfezione formale non basta a rendere il film memorabile. Il fascino è innegabile, ma la pellicola si contorce eccessivamente su se stessa, soprattutto nella parte centrale. Ottimi spunti visivi che il regista farà maturare nei suoi lavori successivi. In un cast all star, Maggie Cheung (a fianco del regista anche nel precedente As Tears Go By) è già splendida musa, mentre il compianto Leslie Cheung (che girerà con Wong anche Happy Together e morirà suicida nel 2003), è perfetto volto wonghiano in una Hong Kong anni '60 dal fascino languido. Nel finale appare un misterioso personaggio impersonato da Tony Leung Chiu Wai: il suo nome è Chow e lo ritroveremo in In the Mood for Love e in 2046 dello stesso autore, coi quali questo film tesse sottili e intriganti legami.
6) Happy Together (1997)
Maestro del cinema contemporaneo nel raccontare le sfumature del sentimento, Wong Kar-wai si cimenta per la prima volta con una storia d'amore omosessuale. Che, esattamente come quello etero da lui più volte rappresentato, è sofferto, tormentato, destinato alla scadenza. Appassionato e frenetico come la colonna sonora che mescola tango (Piazzolla, Veloso) e rock (Frank Zappa, la cover di Danny Chung dell'omonima canzone dei Turtles che dà il titolo al film), è certamente più discontinuo e imperfetto di altri lavori di Wong e la sensazione di aver di fronte un esercizio di stile (seppur ben fatto: ottima la fotografia di Christopher Doyle) prende spesso il sopravvento. Al di là della componente estetica, l'opera è però interessante non solo per come si tiene alla larga dagli stereotipi tipici dell'universo queer (quanto sono virili e autentici i personaggi di Leung e Cheung), ma soprattutto perché, a una lettura più profonda, rispecchia il disagio del popolo di Hong Kong di fronte all'imminente handover, ovvero il passaggio dell'ex colonia a regione amministrativa cinese (avvenuto il 30 giugno 1997). Non è un caso che i protagonisti siano degli esuli volontari afflitti da un senso di attrazione-repulsione verso la madrepatria, quasi Wong abbia voluto esorcizzare il trauma politico andando a girare dall'altra parte del mondo e trasformando le bellezze di un paesaggio a lui alieno (le cascate dell'Iguaçù, la Terra del Fuoco) in luoghi dell'anima. Il film è valso al regista il premio per la miglior regia al Festival di Cannes 1997.
5) Ashes of Time (1994)
Terzo film di Wong Kar-wai, è considerato uno dei suoi migliori, certamente il più ambizioso della prima parte di carriera. Tecnicamente appartiene al genere wuxiapian, che nel cinema cinese e honkonghese è il film di arti marziali in costume, paragonabile secondo molti all'occidentale "cappa e spada". Ma al regista non interessano intrighi, duelli, tenzoni in nome dell'onore cavalleresco: gli scontri sono ridotti a favore dei dialoghi e del complesso intreccio che si dipana intorno a un incredibile numero di protagonisti (interpretati dalle più grandi star di Hong Kong) e s'incentra sull'amore. Impossibile, negato, sofferto, indimenticato. La lavorazione travagliata, compiuta nel deserto cinese tra mille difficoltà produttive (tanto che fu necessaria una pausa in cui Wong girò Hong Kong Express, uscito lo stesso anno) si riflette in un senso di evanescenza che percorre tutto il film: tra folate di vento, polvere, carezze e ricordi inestinguibili, si sviluppa, con largo uso di ralenti, un'opera unica, audace e affascinante dove Akira Kurosawa incontra Douglas Sirk, Sergio Leone e Robert Bresson. Peccato che l'edizione originale sia stata colpevolmente trascurata fino alla sua completa rovina (ne sopravvivono solo pessime edizioni home video), tanto da spingere il regista a rimontare il film, tagliando alcune parti irrimediabilmente compromesse e modificando la colonna sonora: la nuova versione, Ashes of Time Redux (di 93 minuti) è stata presentata nel 2008 al 61° Festival di Cannes e successivamente editata in DVD.
4) The Grandmaster (2013)
Presentato alla Berlinale 2013 dopo otto anni di lavorazione, il film commercialmente più ambizioso di Wong Kar-wai segna il suo ritorno al cinema di genere a quasi vent'anni da Ashes of Time, nonché l'insolita scelta di raccontare una figura cardine dell'iconografia orientale qual è Ip Man, celebre mentore di Bruce Lee. Senza mai tralasciare la sua personalissima estetica raffinata, Wong procede per episodi ed ellissi componendo un affresco sontuoso di vent'anni di Storia cinese che è, al contempo, uno struggente racconto intriso di nostalgia come un kolossal mélo d'altri tempi. La minuziosità di scenografie e costumi fa girare la testa, la fotografia incanta con i suoi colori ipersaturi alternati a toni più bui, mentre i combattimenti sono affidati a Yuen Wo Ping, coreografo di Matrix (1999). Ma, che sia una scena d'azione, un dialogo o uno dei repentini scorci storici che infiammano la narrazione, è Wong a imprimere la sua impronta inconfondibile: è così che un duello si trasforma in balletto d'amore o in sinfonia di morte tra i vagoni di un treno infinito, e il tramonto dei sogni e di un'epoca viene celebrato nel segno del grande Cinema, citando Leone e addirittura il tema musicale del suo C'era una volta in America (1984). In un trionfo della forma che è certamente manierismo, ma di alta classe. Cast strepitoso, a partire da un'intensa Zhang Ziyi. La versione internazionale è modificata di alcune parti e dura solo 122 minuti.
3) 2046 (2004)
In the Mood for Love, probabilmente il primo cult del nuovo millennio, azzera in un certo senso la carriera di Wong Kar-wai, da allora costretto a confrontarsi continuamente con il suo massimo capolavoro. Ce ne regala un sequel che è l'antitesi del film precedente: se In the Mood for Love si muove in sottrazione, 2046 è una densa sinfonia baroccheggiante che rovescia il personaggio di Chow, moltiplica le figure femminili e i momenti erotici (forse mai così espliciti nel cinema di Wong) e frantuma la narrazione, disgregando spesso la linea temporale e intrecciando la realtà con la visionaria dimensione futuristica creata dalla penna del protagonista. È senz'altro il trionfo del manierismo wonghiano all'ennesima potenza: ma la bellezza mozzafiato dei suoi frame pieni di colori, curve e sguardi, la poesia che traspare dai personaggi imprigionati nei propri ricordi e la sua amara allegoria politica (il 2046 è anche l'ultimo anno di “libertà” di Hong Kong prima del definitivo passaggio alla Cina) rendono l'opera un'esperienza unica e vibrante. Cast in splendida forma, a partire dal protagonista Tony Leung Chiu Wai.
2) Hong Kong Express (1994)
L'amore secondo Wong Kar-wai, raccontato con sguardo lucido nel film che lo ha definitivamente consacrato come autore venerato a livello internazionale. Amore con una data di scadenza come un barattolo di ananas, amore come dolce e folle ossessione, in cui un oggetto o una canzone si fanno veicolo di una dichiarazione di innamoramento. Nonostante la sua leggerezza non si tratta una semplice commedia sentimentale, ma di un'opera disarmante per la sua unicità, che con stile vertiginoso e postmoderno ritrae la complessità degli affetti in un mondo contemporaneo consumista che viaggia a ritmo accelerato. Il Chunking Mansions, noto complesso residenziale hongkonghese brulicante di vita, è il microcosmo dove si muovono personaggi unici, perduti in dolori e deliri amorosi, nella ripetitività dei gesti, nel tormento per love story finite o illusorie. Un cult irresistibile che si muove tra due canzoni simbolo, California Dreamin' dei The Mamas & The Papas e Dreams dei Cranberries. Quest'ultima è coverizzata dalla stessa Faye Wong, popstar locale alle prese con un ruolo indimenticabile, mentre i divi Tony Leung e Takeshi Kaneshiro donano alla figura del poliziotto, topos del cinema cantonese, un'inedita allure romantica. Clamoroso.
1) In the Mood for Love (2000)
Maggie Cheung che cammina, divina ed elegantissima; Tony Leung affascinante e assorto con l'immancabile sigaretta tra le dita. Tutto rigorosamente al ralenti, con in sottofondo l'avvolgente Yumeji's Theme di Shigeru Umebayashi o le note di Quizás,Quizás,Quizás cantate da Nat King Cole, a sottolineare una passione che non può essere sfogata. Bastano queste immagini, reiterate con immensa eleganza in un film che racconta l'amore senza la necessità di esibirlo, a consacrare il miglior lungometraggio di Wong Kar-wai nell'immaginario cinematografico del Nuovo millennio. Il regista abbandona il postmodernismo convulso dei precedenti film (Angeli perduti ne è un esempio lampante) a favore di una narrazione dilatata che privilegia le ellissi, senza trascurare virtuosismi tecnici sapientemente dosati. La sua è una costruzione perfezionistica dello spazio che si sofferma continuamente sui dettagli, mentre la slow motion si fa correlativo oggettivo dei sentimenti. In una Hong Kong dal fascino rétro rappresentata quasi esclusivamente per interni (eccetto per il bellissimo epilogo ambientato al tempio di Angkor Wat, in Cambogia), Leung e Cheung sono meravigliosi e sprigionano sensualità a ogni frame. Wong riaggiorna così il mélo e ci consegna un cult assoluto, presentato in concorso al 53° Festival di Cannes dove ha vinto il premio per il miglior attore (Tony Chiu Wai Leung) e il Grand Prix tecnico (alla magistrale fotografia di Christopher Doyle e Ping Bin Lee e al montaggio di William Chang). Inarrivabile.