Non è facile, capire l’India. Paese che è continente, passato coloniale, conflitti intestini, 1.210.193.422 cittadini censiti nel 2011 e un branding a misura di occidentale per comunicare questo gigante pulsante soprattutto attraverso sessioni di yoga private e curry (cucinati, di solito, male) in ristorantini etno-chic. La vastità, e la complessità, del crogiuolo di etnie, sapori, e religioni indiani non rendono indifferente il nascere in una zona del Paese piuttosto che in un’altra. Dunque, per avvicinarsi alla filmografia dell’auteur indiano più conosciuto e apprezzato, Satyajit Ray, bisogna partire da un anno, e da un luogo: 1921, Calcutta, dove Ray viene al mondo in un famiglia appartenente a una delle caste più alte e privilegiate della società indiana.
Calcutta è la capitale dello Stato del Bengala Occidentale, dove la maggioranza della popolazione, oltre all’inglese, parla bengali – lingua in cui sono recitati i film di Ray – ed è di religione induista. L’opera di Ray, che prende radici nella sua terra natale e di essa tratta e narra, è però sottilmente inclusiva e universale, integrando magistralmente conflitti socio-politici locali alle lacerazioni con cui, in ogni tempo e cultura, l’essere umano si trova a dover fare i conti. Le pellicole del regista hanno un respiro internazionale paragonabile, seppure su una scala diversa, a quello con cui il coreano Bong Joon-ho ha saputo conquistare l’Occidente dopo il trionfo di Parasite agli Oscar 2020. Per toccare con mano la grande empatia del lavoro di Ray, si può iniziare dalla visione di due suoi titoli, offerti in streaming nel catalogo italiano di MUBI: Lo straniero (Agantuk, 1991) e La casa e il mondo (Ghare Baire, 1984).
Entrambi i film, infatti, prendono come punto di riferimento la casa e la famiglia e le pongono alla sfida del contatto con il mondo esterno. L’azione latita, e i personaggi lasciano solo sporadicamente, e per comprovata necessità, le mura di una domesticità agiata dove, come da tradizione, le donne si occupano di ordine, ospiti e conversazione mentre gli uomini gestiscono le finanze. Come in una comedy of manners di Oscar Wilde, o in un romanzo alla Jane Austen, la parola e il pettegolezzo muovono in avanti la trama e inframmezzano i dialoghi di uno humour sommesso, ma palpabilissimo. Che si tratti, come in Lo straniero, di verificare l’identità di uno sconosciuto che richiede ospitalità in quanto zio da tempo scomparso della padrona di casa, o, come ne La casa e il mondo, di mettere alla prova le proprie convinzioni politiche ed emotive, il nodo sarà sempre sciolto nella casa, imprescindibile medio attraverso cui raggiungere l’esterno.
Tra atmosfere che richiamano il pasoliniano Teorema (1968) e tecniche di regia raffinate e puntuali, Ray mette in gioco, forse più scopertamente di altri, la propria dose di contributo personale nel tratteggiare situazioni e protagonisti. Tanto in Lo straniero che ne La casa e il mondo, l’amore per le arti e la conoscenza, unito a un certo cosmopolitismo, contrasta solo apparentemente con l’abbigliamento tradizionale che i personaggi di Ray indossano in un mondo ormai globalizzato. D’altro canto, lo stesso regista dichiarò che furono la visione di Ladri di biciclette di Vittorio de Sica (1948) e l’amicizia e collaborazione con Jean Renoir – e non, ad esempio, le produzioni di Bollywood – a spingerlo sulla strada del cinema. Allo stesso tempo, la sceneggiatura di La casa e il mondo è l’adattamento di un omonimo romanzo dello scrittore e poeta indiano Rabindranath Tagore. Non si può, in altre parole, pensare l’India di Ray al di fuori di un contesto globale. Viceversa, chiunque si rivolga al Bengala di queste pellicole non può basarsi interamente sulla propria pre-conoscenza del mondo. Qui sta la preziosità, e la piacevolezza, del contributo di Ray alla settima arte. Qui stanno la casa, ma anche il mondo: popolati da stranieri che, per via d’accidente, possono essere inseriti tra i componenti della propria famiglia.
Elisa Teneggi
Calcutta è la capitale dello Stato del Bengala Occidentale, dove la maggioranza della popolazione, oltre all’inglese, parla bengali – lingua in cui sono recitati i film di Ray – ed è di religione induista. L’opera di Ray, che prende radici nella sua terra natale e di essa tratta e narra, è però sottilmente inclusiva e universale, integrando magistralmente conflitti socio-politici locali alle lacerazioni con cui, in ogni tempo e cultura, l’essere umano si trova a dover fare i conti. Le pellicole del regista hanno un respiro internazionale paragonabile, seppure su una scala diversa, a quello con cui il coreano Bong Joon-ho ha saputo conquistare l’Occidente dopo il trionfo di Parasite agli Oscar 2020. Per toccare con mano la grande empatia del lavoro di Ray, si può iniziare dalla visione di due suoi titoli, offerti in streaming nel catalogo italiano di MUBI: Lo straniero (Agantuk, 1991) e La casa e il mondo (Ghare Baire, 1984).
Entrambi i film, infatti, prendono come punto di riferimento la casa e la famiglia e le pongono alla sfida del contatto con il mondo esterno. L’azione latita, e i personaggi lasciano solo sporadicamente, e per comprovata necessità, le mura di una domesticità agiata dove, come da tradizione, le donne si occupano di ordine, ospiti e conversazione mentre gli uomini gestiscono le finanze. Come in una comedy of manners di Oscar Wilde, o in un romanzo alla Jane Austen, la parola e il pettegolezzo muovono in avanti la trama e inframmezzano i dialoghi di uno humour sommesso, ma palpabilissimo. Che si tratti, come in Lo straniero, di verificare l’identità di uno sconosciuto che richiede ospitalità in quanto zio da tempo scomparso della padrona di casa, o, come ne La casa e il mondo, di mettere alla prova le proprie convinzioni politiche ed emotive, il nodo sarà sempre sciolto nella casa, imprescindibile medio attraverso cui raggiungere l’esterno.
Tra atmosfere che richiamano il pasoliniano Teorema (1968) e tecniche di regia raffinate e puntuali, Ray mette in gioco, forse più scopertamente di altri, la propria dose di contributo personale nel tratteggiare situazioni e protagonisti. Tanto in Lo straniero che ne La casa e il mondo, l’amore per le arti e la conoscenza, unito a un certo cosmopolitismo, contrasta solo apparentemente con l’abbigliamento tradizionale che i personaggi di Ray indossano in un mondo ormai globalizzato. D’altro canto, lo stesso regista dichiarò che furono la visione di Ladri di biciclette di Vittorio de Sica (1948) e l’amicizia e collaborazione con Jean Renoir – e non, ad esempio, le produzioni di Bollywood – a spingerlo sulla strada del cinema. Allo stesso tempo, la sceneggiatura di La casa e il mondo è l’adattamento di un omonimo romanzo dello scrittore e poeta indiano Rabindranath Tagore. Non si può, in altre parole, pensare l’India di Ray al di fuori di un contesto globale. Viceversa, chiunque si rivolga al Bengala di queste pellicole non può basarsi interamente sulla propria pre-conoscenza del mondo. Qui sta la preziosità, e la piacevolezza, del contributo di Ray alla settima arte. Qui stanno la casa, ma anche il mondo: popolati da stranieri che, per via d’accidente, possono essere inseriti tra i componenti della propria famiglia.
Elisa Teneggi