Come nel libro che Moretti ha adattato, in modo sibillino e raffinato, insieme alle sceneggiatrici Federica Pontremoli e Valia Santella, i tre piani del titolo, collocati nel film in una palazzina del quartiere romano Prati, si possono interpretare come i tre stadi dell’apparato psichico secondo Freud: Es, Io e Super-io, con quest’ultimo che fa riferimento al piano in cui vive il personaggio dello stesso Moretti, simbolo del controllo e del divieto e che nel film, non a caso, di professione fa il giudice, il mestiere sulla carta più normativo e castrante possibile sul piano etico, pratico e morale.
È la prima volta che Moretti si carica di questa professione in prima persona e lo fa, paradossalmente, nel suo film in cui a livello di minutaggio è meno presente e in cui il suo notorio moralismo si apre in maniera mai così livida e struggente agli altri e alle altrui vite: a personaggi che sono altri da sé (e altri dal sé morettiano) dolcemente riempiti dalle sue ossessioni di sempre, che ritroviamo qui invecchiate e rattrappite ma per certi versi inevitabilmente maturate, spinte verso nuove e inedite, oltre che a tratti perfino rivoluzionarie, tensioni dialettiche, alle quali fa gioco anche la tanto vituperata recitazione tentennante e squadrata di tutto il cast.
Tre piani è stato generalmente accolto, purtroppo, come un film alieno rispetto al resto della filmografia morettiana, ma è forse il lungometraggio che più di tutti fa i conti coi trascorsi del Michela Apicella che fu, lasciandoseli definitivamente alle spalle e aprendo virtualmente, per Moretti, una nuova fase della sua vita e carriera nella quale il cineasta molto probabilmente non sarà più presente come attore nei suoi film. La semplicità della messa in scena è solo apparente e questa resa dei conti si nutre di interni inquadrati in modo volutamente scarno e mortuario, di dissolvenze incrociate dal sapore classico e scolastico, di squarci narrativi colti di lustro in lustro: 5 anni dopo è una didascalia che nel film ricorre più volte e, a pensarci bene, è lo stesso arco di tempo che più o meno intercorre tra un film di Moretti e l’altro, dalla svolta diaristica di Caro diario (1993) in poi.
Nanni e gli altri, dicevamo: il Moretti di Tre piani non è più il figlio con addosso il cognome della sua vera madre (Agata Apicella, appunto), ma un padre che ha scelto di rinnegare il proprio figlio colpevole di omicidio stradale, che si chiama ancora Andrea come quello interpretato da Giuseppe Sanfelice ne La stanza del figlio (2001), dove a morire per la prima volta, sotto mentite spoglie e in virtù di una frattura epocale, era forse proprio Michele Apicella. Si parte anche da un incidente che (s)travolge però molte vite e causa una morte accidentale, in Tre piani, mentre in Palombella rossa (1989) era solo la sua memoria individuale, storica e politica di comunista, e di "fu Michele Apicella", a essere intaccata fatalmente e forse irreversibilmente da un accadimento analogo. Tutto Tre piani, che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi La nostra storia, mantra che il personaggio della Buy (Dora, giudice e moglie del Vittorio Moretti) nel film ripete spesso con l'approssimarsi della conclusione, asseconda questo assunto collettivista, come si sarebbe detto una volta, squarciando il velo dell'empatia verso gli altri esseri umani: tutti morettiani in maniera crepuscolare, assorta, malinconica, definitiva, senza ritorno, come le musiche di Franco Piersanti a puntellare il loro scombussolamento emotivo sommerso e in subbuglio con rara delicatezza, portandolo alle soglie dell'incubo soffuso ma non per questo meno tagliente.
Il Vittorio di Tre piani è un padre che dal figlio Andrea viene odiato a morte e picchiato perfino brutalmente, come in passato venivano malmenati lo stesso Michele Apicella e anche il Don Giulio de La messa è finita (1983), per certi versi un Apicella in abito talare come diceva Enrico Ghezzi, nella celebre scena della fontana. Ma le scorie morettiane, nell'ultimo film di Moretti, davvero si sprecano. Il Giorgio di Adriano Giannini in Tre piani litiga fuori dal posto di lavoro del fratello, col quale è in rotta totale, con le stesse movenze, parole e gestualità che furono un tempo apicelliane. Ciò che la polizia conferma, in merito alla violenza sessuale temuta dal Lucio di Riccardo Scamarcio, maschio fragile e incrinato simbolo dell’Es e dell’inconscio, è invece messo in dubbio dalla psicanalisi, con lo stesso potere perturbante che trovavamo nel capolavoro più freudiano di Moretti dopo Sogni d'oro (1981), Bianca (1984), lungometraggio che castrava al suo interno tutta la sessualità rabbuiata che in Tre piani emerge in forme mai viste nei film del regista, diventando da “sudaticcia ed espansa” a “consensuale e un po’ goffa”, come dice Lucio in tribunale.
Lucio dice poi alla figlia che non vuole più andare scuola: “Devi andarci, perché sennò la mamma si dispiace, e io anche”, un po’ come come Don Giulio ne La messa è finita diceva: “Noi preti pensiamo di sì ed io anche!”, mentre il personaggio di Alba Rohrwacher di Tre piani, Monica, simbolo della potenza evocativa e generativa dell'Io, riferisce al fratello del marito, in un momento di sconvolgimento erotico, che certi giorni vorrebbe solo uscire e parlare con qualcuno di adulto per strada, tanto che sembra quasi il Moretti indiavolato alle calcagna di Jennifer Beals di Caro diario. Il figlio di Dora e Vittorio, Andrea, rifiuta dal canto suo la compassione verso il marito della donna che ha ucciso guardandolo dal balcone di casa sua, come avrebbe potuto fare il protagonista immaturo, irrisolto e recalcitrante di Io sono un autarchico (1976), ed è il perfetto emblema di una società deragliata che rifiuta le scuse e il confronto con l’altro attraverso il filtro decisivo della tenerezza.
E si potrebbe perfino continuare: Vittorio pone alla moglie Dora un aut aut da brividi tra lui e il figlio come avrebbe potuto fare il suo storico e mostruoso alter ego. E quando lui stesso dice che Andrea li ha già fatti soffrire e che lui non vuole più vederlo in vita sua non è difficile rintracciare, in chiave senile, i moniti dell’Apicella che fu, senza contare che quel figlio così ingestibile e umorale potrebbe essere tranquillamente letto come una proiezione psicanalitica, procedimento mentale di cui il film è affollato e disseminato, come un'emanazione di Michele stesso, o del protagonista di Bianca che diceva: “Io decido di voler bene, scelgo” .
A un certo punto, verso l'approssimarsi della fine del film, appare perfino quella che sembra la vera casa di Moretti già vista in Aprile (1998) quando Nanni, in preda alle sue paturnie di padre, parlava in terrazza di un altro scrittore israeliano, A. B. Yehoshua, chiudendo così col senno di poi il cerchio con Tre piani. Il vero discrimen, nell'ultimo film del regista, è però assolutamente cruciale e sta nel fatto che quasi sempre, quando queste scene vengono eseguite, c’è sempre il controcampo ideale, da qualche parte, di qualcun altro che osserva e guarda ciò che accade davanti ai suoi occhi sgomenti con una smorfia di puro dolore, non di rado con uno sguardo addirittura deliberatamente commosso. Un’idea di tenue e sofisticato voyeurismo del dolore altrui che mai prima d’ora, nel cinema di Moretti, era stata dispiegata in modo così sintomaticamente dolente.
Davide Stanzione