C’è una storia che si perde tra i vicoli assolati di Napoli e le ombre tremolanti del cinema muto, una storia che ha il volto di una donna, l’eco di un accento meridionale, e il coraggio di chi osa creare nel silenzio. È la storia di Elvira Notari, la prima regista italiana, una pioniera dimenticata, che ha sfidato il suo tempo con una macchina da presa tra le mani e il Sud nel cuore.
Nata a Salerno nel 1875, Elvira crebbe in una terra bella e difficile, dove le donne dovevano lottare due volte: per emergere e per essere prese sul serio. In una società che relegava le donne a ruoli marginali, e in un’Italia dove il Nord dettava legge anche nel mondo culturale e artistico, lei osò immaginare un futuro diverso. Salerno, Napoli, il Mezzogiorno: non erano solo luoghi, erano linfa. Fu da lì che Elvira trasse la sua forza, la sua voce, la sua poetica.
Si trasferì a Napoli, città che sarebbe diventata la sua musa, il suo set, la sua officina creativa. E fu lì che, insieme al marito Nicola, fondò la Dora Film, una casa di produzione all’avanguardia che portava il nome della loro figlia. Non era solo un’azienda di famiglia, ma un vero laboratorio di emozioni, di storie vere, di immagini che parlavano il dialetto e il dolore del popolo. Con più di sessanta lungometraggi e centinaia di corti e documentari, Elvira costruì un impero artigianale e poetico, molto prima che il cinema diventasse un’industria. Girava per le strade con la sua cinepresa, filmando la vita reale: bambini scalzi, donne che lavavano i panni nei “vasci”, venditori ambulanti, processioni, lacrime, amori impossibili. Il suo era un cinema crudo, sincero, popolare. Un cinema meridionale, nel senso più profondo e orgoglioso del termine.
In un’epoca in cui le donne non avevano diritto di parola né sui giornali né tantomeno sui set cinematografici, lei scriveva sceneggiature, dirigeva attori, montava pellicole. Elvira era una donna che non chiedeva il permesso, ma prendeva il suo spazio. Non fu mai la “moglie di un produttore”, come qualcuno tentò di ridurla: fu un’artista completa, una visionaria, una regista con la R maiuscola. Eppure, come accade troppo spesso, il suo nome fu dimenticato. Spento tra le pagine di una storia del cinema scritta al maschile, centrata su Roma, su Torino, sui grandi maestri quasi sempre uomini, quasi sempre del Nord. Ma il cinema italiano, quello vero, quello fatto di emozioni viscerali e strade polverose, ha anche il volto e la voce di Elvira, donna del Sud e regista prima del tempo.
Il suo contributo non fu solo tecnico o artistico: fu politico, sociale, culturale. Ogni fotogramma diretto da Elvira era un atto di resistenza, una dichiarazione d’indipendenza femminile. In un mondo in cui si considerava normale che le donne fossero solo muse, lei fu autrice. In un’industria che voleva donne silenziose, lei urlava con le immagini.
E il caso di Elvira non è isolato. È il simbolo di una dinamica storica molto più ampia: quella di un’industria che per troppo tempo ha tenuto le donne ai margini. E non solo dietro la macchina da presa. Anche davanti all’obiettivo, i ruoli femminili sono stati a lungo stereotipati, passivi, secondari. L’eroe era uomo, il regista era uomo, il produttore era uomo. Le donne erano muse, mogli, madri o amanti. Raramente autrici. Eppure, il contributo delle donne al cinema è stato fondamentale, anche se spesso invisibile. Dalle sceneggiatrici anonime del cinema muto alle montatrici geniali che hanno modellato il ritmo di capolavori celebri, dalle costumiste alle direttrici della fotografia, il talento femminile ha sempre lavorato nell’ombra. E quando una donna ha osato firmare un film, la sua opera è stata talvolta relegata al “cinema di donne”, come se raccontare da una prospettiva femminile fosse un genere, non una legittima visione del mondo.
Oggi qualcosa si sta muovendo. Le registe italiane (da Alice Rohrwacher a Emma Dante, da Laura Bispuri a Susanna Nicchiarelli) stanno conquistando spazio, premi, riconoscimenti. Ma la strada è ancora lunga. I dati lo confermano: le donne dietro la macchina da presa sono ancora una minoranza, faticano ad accedere a finanziamenti paritari, e troppo spesso vengono giudicate in base a standard diversi rispetto ai colleghi uomini. Riscoprire figure come Elvira Notari non è solo un gesto di giustizia storica: è un atto politico, un faro per il presente. Significa ricordare che le donne ci sono sempre state. Hanno raccontato, creato, costruito. Hanno plasmato il nostro immaginario anche quando nessuno lo riconosceva. Dare loro voce significa cambiare la narrazione, aprire nuovi sguardi, rompere le cornici.
Essere una donna, e per giunta del Sud, in un’Italia maschilista e centralista, non era solo una difficoltà: era una doppia frontiera da abbattere. E lei l’ha fatto, senza clamore, ma con la forza della creatività e della determinazione. Il suo cinema oggi sopravvive in pochi frammenti, ma la sua eredità è ovunque: in ogni regista che osa raccontare la realtà con onestà, in ogni donna che prende la macchina da presa, in ogni voce del Sud che chiede di essere ascoltata non più come eccezione, ma come parte integrante della cultura nazionale. È tempo di riportare Elvira nei titoli di testa della storia. Di restituirle lo spazio che le spetta non solo come pioniera del cinema, ma come simbolo della libertà femminile e della dignità meridionale. Perché, prima che fosse moda, prima che fosse movimento, Elvira era già rivoluzione.
Carmen Apadula
Nata a Salerno nel 1875, Elvira crebbe in una terra bella e difficile, dove le donne dovevano lottare due volte: per emergere e per essere prese sul serio. In una società che relegava le donne a ruoli marginali, e in un’Italia dove il Nord dettava legge anche nel mondo culturale e artistico, lei osò immaginare un futuro diverso. Salerno, Napoli, il Mezzogiorno: non erano solo luoghi, erano linfa. Fu da lì che Elvira trasse la sua forza, la sua voce, la sua poetica.
Si trasferì a Napoli, città che sarebbe diventata la sua musa, il suo set, la sua officina creativa. E fu lì che, insieme al marito Nicola, fondò la Dora Film, una casa di produzione all’avanguardia che portava il nome della loro figlia. Non era solo un’azienda di famiglia, ma un vero laboratorio di emozioni, di storie vere, di immagini che parlavano il dialetto e il dolore del popolo. Con più di sessanta lungometraggi e centinaia di corti e documentari, Elvira costruì un impero artigianale e poetico, molto prima che il cinema diventasse un’industria. Girava per le strade con la sua cinepresa, filmando la vita reale: bambini scalzi, donne che lavavano i panni nei “vasci”, venditori ambulanti, processioni, lacrime, amori impossibili. Il suo era un cinema crudo, sincero, popolare. Un cinema meridionale, nel senso più profondo e orgoglioso del termine.
In un’epoca in cui le donne non avevano diritto di parola né sui giornali né tantomeno sui set cinematografici, lei scriveva sceneggiature, dirigeva attori, montava pellicole. Elvira era una donna che non chiedeva il permesso, ma prendeva il suo spazio. Non fu mai la “moglie di un produttore”, come qualcuno tentò di ridurla: fu un’artista completa, una visionaria, una regista con la R maiuscola. Eppure, come accade troppo spesso, il suo nome fu dimenticato. Spento tra le pagine di una storia del cinema scritta al maschile, centrata su Roma, su Torino, sui grandi maestri quasi sempre uomini, quasi sempre del Nord. Ma il cinema italiano, quello vero, quello fatto di emozioni viscerali e strade polverose, ha anche il volto e la voce di Elvira, donna del Sud e regista prima del tempo.
Il suo contributo non fu solo tecnico o artistico: fu politico, sociale, culturale. Ogni fotogramma diretto da Elvira era un atto di resistenza, una dichiarazione d’indipendenza femminile. In un mondo in cui si considerava normale che le donne fossero solo muse, lei fu autrice. In un’industria che voleva donne silenziose, lei urlava con le immagini.
E il caso di Elvira non è isolato. È il simbolo di una dinamica storica molto più ampia: quella di un’industria che per troppo tempo ha tenuto le donne ai margini. E non solo dietro la macchina da presa. Anche davanti all’obiettivo, i ruoli femminili sono stati a lungo stereotipati, passivi, secondari. L’eroe era uomo, il regista era uomo, il produttore era uomo. Le donne erano muse, mogli, madri o amanti. Raramente autrici. Eppure, il contributo delle donne al cinema è stato fondamentale, anche se spesso invisibile. Dalle sceneggiatrici anonime del cinema muto alle montatrici geniali che hanno modellato il ritmo di capolavori celebri, dalle costumiste alle direttrici della fotografia, il talento femminile ha sempre lavorato nell’ombra. E quando una donna ha osato firmare un film, la sua opera è stata talvolta relegata al “cinema di donne”, come se raccontare da una prospettiva femminile fosse un genere, non una legittima visione del mondo.
Oggi qualcosa si sta muovendo. Le registe italiane (da Alice Rohrwacher a Emma Dante, da Laura Bispuri a Susanna Nicchiarelli) stanno conquistando spazio, premi, riconoscimenti. Ma la strada è ancora lunga. I dati lo confermano: le donne dietro la macchina da presa sono ancora una minoranza, faticano ad accedere a finanziamenti paritari, e troppo spesso vengono giudicate in base a standard diversi rispetto ai colleghi uomini. Riscoprire figure come Elvira Notari non è solo un gesto di giustizia storica: è un atto politico, un faro per il presente. Significa ricordare che le donne ci sono sempre state. Hanno raccontato, creato, costruito. Hanno plasmato il nostro immaginario anche quando nessuno lo riconosceva. Dare loro voce significa cambiare la narrazione, aprire nuovi sguardi, rompere le cornici.
Essere una donna, e per giunta del Sud, in un’Italia maschilista e centralista, non era solo una difficoltà: era una doppia frontiera da abbattere. E lei l’ha fatto, senza clamore, ma con la forza della creatività e della determinazione. Il suo cinema oggi sopravvive in pochi frammenti, ma la sua eredità è ovunque: in ogni regista che osa raccontare la realtà con onestà, in ogni donna che prende la macchina da presa, in ogni voce del Sud che chiede di essere ascoltata non più come eccezione, ma come parte integrante della cultura nazionale. È tempo di riportare Elvira nei titoli di testa della storia. Di restituirle lo spazio che le spetta non solo come pioniera del cinema, ma come simbolo della libertà femminile e della dignità meridionale. Perché, prima che fosse moda, prima che fosse movimento, Elvira era già rivoluzione.
Carmen Apadula