Dalla Cina con furore – I 10 migliori wuxiapian
17/05/2020
Portando in scena antiche tradizioni orientali, attraverso un ponderato mix tra Storia ed esigenze di puro spettacolo, il wuxiapian è il genere cinematografico che comprende i film di arti marziali in costume, mettendo in scena le classiche avventure di "cappa e spada" tra cavalieri erranti. Combattimenti magnificamente coreografati, composta ritualità dei gesti, sguardo fantastico che trascende la verosimiglianza storica, spirito avventuroso e tendenza all'astrazione sono alcuni dei tratti fondanti di un genere che vede il suo apice tra la metà degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, ma che ha trovato, anche nei decenni successivi, modelli di rilievo assoluto.
Ecco i 10 migliori wuxiapian apparsi sul grande schermo, riportati in ordine cronologico.
Mantieni l’odio per la tua vendetta di Chang Cheh (1967)

Vivido esempio di commistione tra azione, arti marziali ed estetica orientale, è tra i capostipiti e punti fermi della filmografia wuxia cinese. L'epica di riferimento, incentrata sul tema della vendetta e del tormento virato sia in senso interiore che fisico, è perfettamente incarnata dalla figura di Fang Kang; devoto al maestro sostituto della figura paterna, combattuto dall'ostilità percepita nei suoi confronti da parte degli allievi gelosi, mutilato e costretto a una vita in incognito, ritorna spinto dal senso di onore e obbedienza a risolvere una situazione disperata. Una vicenda caratterizzata da violenza anarchica e senza freni, di forte impatto visivo e simbolico.
Dragon Inn di King Hu (1967)

Una tappa importante sotto il profilo storico all’interno della produzione del regista cinese King Hu, attivo nel cinema di Hong Kong e di Taiwan, che quattro anni più tardi darà vita al capolavoro wuxia A Touch of Zen (1971). Un film dal sapore fondativo in cui il senso dell’avventura e della spettacolarità incontrano gli elementi primordiali, le maschere tipiche e i nodi cruciali della cultura del suo paese. Premesse che danno luogo a una roboante epica ancestrale che potrebbe essere considerata, con la giusta dose di approssimazione, l’equivalente eastern della mitologia eretta da John Ford negli Stati Uniti intorno ai codici del western. Per capire la sua importanza all’interno del patrimonio cinematografico-popolare orientale, basti pensare al modo in cui il taiwanese Tsai Ming-liang l’ha omaggiato, fin dal titolo, in Goodbye, Dragon Inn (2003), straziante film sulla “morte del cinema” in cui un turista giapponese entra a vedere proprio il film di King Hu in un cinema destinato a chiudere da lì a poco, mentre la proiezione è quasi deserta e gli attori della pellicola, Chun Shih e Miao Tien, si riducono a commosse entità fantasmatiche di un tempo ormai perduto.
A Touch of Zen di King Hu (1971)

Ambizioso wuxiapian della durata di oltre tre ore, punto di non ritorno del genere e modello di ispirazione per svariati registi a venire, compresi i più recenti Ang Lee e Zhang Yimou, il film di King Hu è un'appassionante affresco epico che inizia come una divertente commedia soprannaturale, prosegue come un avvincente racconto di intrighi e vendette e finisce come una luminosa parabola buddista. Suddivisa in tre distinte sezioni narrative, differenti per ritmo, tono e registro ma accomunate da un'identica armonia compositiva, la pellicola trascende la dimensione umana per assumere i tratti metafisici di uno scontro fra ordine e caos, menzogna e verità, bene e male, mescolando dramma, avventura, azione e sentimento. Imperdibile.
Storia di fantasmi cinesi di Ching Siu-Tung (1987)

Miscela sapientemente tradizione, fantasy, commedia e romanticismo, il film alterna efficacemente vari registri, dall'action alla comicità slapstick. Ne risulta un'opera di grande intrattenimento, dotata di ottimo ritmo e confezionata a dovere. Per un prodotto di questo tipo, è davvero impossibile chiedere di più. Ching Siu-Tung è un nome importante nel cinema di Hong Kong, in quanto coreografo di arti marziali in tantissime pellicole, dagli anni Ottanta fino alla prima decade del 2000.
Ashes of Time di Wong Kar-wai (1994)

Tra folate di vento, polvere, carezze e ricordi inestinguibili, si sviluppa, con largo uso di ralenti, un'opera unica, audace e affascinante dove Akira Kurosawa incontra Douglas Sirk, Sergio Leone e Robert Bresson. Appena prima della consacrazione definitiva ottenuta con Hong Kong Express, Wong Kar-wai realizza una delle sue pellicole più ambiziose, permeata di poesia e fascino romantico. Sostenuto da un magnifico apparato visivo, il film è, in definitiva, una indimenticabile riflessione sull'amore, impossibile, negato, sofferto e indimenticato.
The Blade di Tsui Hark (1995)

Tsui Hark, prolifico regista che negli anni d'oro del cinema di Hong Kong ne ha percorso e reinventato praticamente tutti i generi, segna con questo remake non ufficiale del classico Mantieni l'odio per la tua vendetta di Cheh Chang (1967) l'atto di rinascita del wuxia pian, ovvero il cappa e spada in salsa orientale. Questo gioiello di raro fascino parte rinnegando gli stilemi della filmografia precedente con l'eliminazione dei wire-work (cavi d'acciaio invisibili usati per sostenere gli attori nelle coreografie più virtuosistiche) a favore di un taglio più realistico e di una brutalità visiva che stordisce lo spettatore. La tradizionale storia di vendetta assume le sfumature di un affresco più complesso e dà vita a punti di vista differenti come quello della voce narrante femminile. Memorabile.
La tigre e il dragone di Ang Lee (2000)

Con questo splendido film, Ang Lee, eclettico autore di Taiwan con alle spalle un'importante carriera negli Stati Uniti, ha sdoganato un genere rimasto fino a quel momento recluso a una ristretta cerchia di appassionati. Una immaginifica favola al femminile che miscela con sapienza avventura e melodramma, azione e saggezza buddhista, morale e lirismo. Lo spettatore può ritrovare l'antico senso cinematografico della meraviglia grazie ai combattimenti coreografati da Yuen Wo-Ping – già al lavoro in Matrix di Andy e Larry Wachowski, 1999 – con i protagonisti che sfidano letteralmente la forza di gravità. L'estremo oriente irrompe nella cultura occidentale attraverso un puro spettacolo per gli occhi, che unisce alla perfezione autorialità e codici mainstream. Quattro Oscar: miglior film straniero, miglior fotografia (Peter Pau), miglior colonna sonora (Dun Tan) e miglior scenografia (Tim Yip).
Hero di Zhang Yimou (2002)

Da sempre abituato a sceneggiature fortemente lineari, Zhang punta qui su una narrazione a mosaico, con ben sei flashback: un sistema a “scatole cinesi”, dove verità e menzogna si mescolano e si confondono. Il regista gioca coi colori (modificandoli di volta in volta) e con le aspettative di uno spettatore che diventa pedina attiva di un gioco fortemente coinvolgente, dove le differenti versioni raccontate possono rimandare a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Il regista porta alla luce la verità un poco alla volta e, nel frattempo, dà vita a uno spettacolo audiovisivo impressionante, dove i duelli sembrano dei soavi balletti in cui suoni e immagini danzano all'unisono.
La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou (2004)

Dopo l'ottimo Hero (2002), Zhang Yimou prosegue sulla strada del wuxiapian, aumentando ancor di più le acrobazie, l'avventura, il ritmo e lo spettacolo. Diversi passaggi sono visivamente impressionanti (merito anche della fotografia di Ziao Xhiaoding e delle coreografie di Ching Siu-tung) seppur, a tratti, il regista si faccia un po' troppo prendere la mano rischiando l'esagerazione e il cattivo gusto. L'atmosfera si fa sempre più epica col passare dei minuti, il triangolo tra i protagonisti funziona, anche se non manca qualche passaggio eccessivamente ridondante. Meraviglioso, in ogni caso, l'uso che il regista fa dei colori, siano essi della natura o dei costumi dei suoi personaggi.
The Assassin di Hou Hsiao-hsien (2015)

Folgorante ritorno dietro la macchina da presa per Hou Hsiao-hsien, a ben otto anni di distanza dal precedente Le voyage du ballon rouge (2007). Il regista firma una potentissima e abbagliante decostruzione del genere wuxia, lavorando in maniera astratta e metafisica sulle coordinate spaziali e temporali della propria messa in scena. Il maestro taiwanese più che girare, dipinge cinema: la sua è una sinfonia per immagini che spinge lo spettatore a perdersi in un marea di tableaux vivants che si susseguono uno dopo l’altro, come in una visione onirica dai colori superdefiniti e dalle tonalità estremamente sature. Soffermarsi sugli innumerevoli dettagli della trama, in parte abbastanza prolissi e oltremodo minuziosi, appare pertanto un esercizio tanto meccanico quanto sterile: il cinema di Hou, all’alba del 2015, è ormai solo e soltanto un irripetibile esempio di amore assoluto per la creazione artigianale e per il culto amorevole di ciascuna inquadratura.
Ecco i 10 migliori wuxiapian apparsi sul grande schermo, riportati in ordine cronologico.
Mantieni l’odio per la tua vendetta di Chang Cheh (1967)

Vivido esempio di commistione tra azione, arti marziali ed estetica orientale, è tra i capostipiti e punti fermi della filmografia wuxia cinese. L'epica di riferimento, incentrata sul tema della vendetta e del tormento virato sia in senso interiore che fisico, è perfettamente incarnata dalla figura di Fang Kang; devoto al maestro sostituto della figura paterna, combattuto dall'ostilità percepita nei suoi confronti da parte degli allievi gelosi, mutilato e costretto a una vita in incognito, ritorna spinto dal senso di onore e obbedienza a risolvere una situazione disperata. Una vicenda caratterizzata da violenza anarchica e senza freni, di forte impatto visivo e simbolico.
Dragon Inn di King Hu (1967)

Una tappa importante sotto il profilo storico all’interno della produzione del regista cinese King Hu, attivo nel cinema di Hong Kong e di Taiwan, che quattro anni più tardi darà vita al capolavoro wuxia A Touch of Zen (1971). Un film dal sapore fondativo in cui il senso dell’avventura e della spettacolarità incontrano gli elementi primordiali, le maschere tipiche e i nodi cruciali della cultura del suo paese. Premesse che danno luogo a una roboante epica ancestrale che potrebbe essere considerata, con la giusta dose di approssimazione, l’equivalente eastern della mitologia eretta da John Ford negli Stati Uniti intorno ai codici del western. Per capire la sua importanza all’interno del patrimonio cinematografico-popolare orientale, basti pensare al modo in cui il taiwanese Tsai Ming-liang l’ha omaggiato, fin dal titolo, in Goodbye, Dragon Inn (2003), straziante film sulla “morte del cinema” in cui un turista giapponese entra a vedere proprio il film di King Hu in un cinema destinato a chiudere da lì a poco, mentre la proiezione è quasi deserta e gli attori della pellicola, Chun Shih e Miao Tien, si riducono a commosse entità fantasmatiche di un tempo ormai perduto.
A Touch of Zen di King Hu (1971)

Ambizioso wuxiapian della durata di oltre tre ore, punto di non ritorno del genere e modello di ispirazione per svariati registi a venire, compresi i più recenti Ang Lee e Zhang Yimou, il film di King Hu è un'appassionante affresco epico che inizia come una divertente commedia soprannaturale, prosegue come un avvincente racconto di intrighi e vendette e finisce come una luminosa parabola buddista. Suddivisa in tre distinte sezioni narrative, differenti per ritmo, tono e registro ma accomunate da un'identica armonia compositiva, la pellicola trascende la dimensione umana per assumere i tratti metafisici di uno scontro fra ordine e caos, menzogna e verità, bene e male, mescolando dramma, avventura, azione e sentimento. Imperdibile.
Storia di fantasmi cinesi di Ching Siu-Tung (1987)

Miscela sapientemente tradizione, fantasy, commedia e romanticismo, il film alterna efficacemente vari registri, dall'action alla comicità slapstick. Ne risulta un'opera di grande intrattenimento, dotata di ottimo ritmo e confezionata a dovere. Per un prodotto di questo tipo, è davvero impossibile chiedere di più. Ching Siu-Tung è un nome importante nel cinema di Hong Kong, in quanto coreografo di arti marziali in tantissime pellicole, dagli anni Ottanta fino alla prima decade del 2000.
Ashes of Time di Wong Kar-wai (1994)

Tra folate di vento, polvere, carezze e ricordi inestinguibili, si sviluppa, con largo uso di ralenti, un'opera unica, audace e affascinante dove Akira Kurosawa incontra Douglas Sirk, Sergio Leone e Robert Bresson. Appena prima della consacrazione definitiva ottenuta con Hong Kong Express, Wong Kar-wai realizza una delle sue pellicole più ambiziose, permeata di poesia e fascino romantico. Sostenuto da un magnifico apparato visivo, il film è, in definitiva, una indimenticabile riflessione sull'amore, impossibile, negato, sofferto e indimenticato.
The Blade di Tsui Hark (1995)

Tsui Hark, prolifico regista che negli anni d'oro del cinema di Hong Kong ne ha percorso e reinventato praticamente tutti i generi, segna con questo remake non ufficiale del classico Mantieni l'odio per la tua vendetta di Cheh Chang (1967) l'atto di rinascita del wuxia pian, ovvero il cappa e spada in salsa orientale. Questo gioiello di raro fascino parte rinnegando gli stilemi della filmografia precedente con l'eliminazione dei wire-work (cavi d'acciaio invisibili usati per sostenere gli attori nelle coreografie più virtuosistiche) a favore di un taglio più realistico e di una brutalità visiva che stordisce lo spettatore. La tradizionale storia di vendetta assume le sfumature di un affresco più complesso e dà vita a punti di vista differenti come quello della voce narrante femminile. Memorabile.
La tigre e il dragone di Ang Lee (2000)

Con questo splendido film, Ang Lee, eclettico autore di Taiwan con alle spalle un'importante carriera negli Stati Uniti, ha sdoganato un genere rimasto fino a quel momento recluso a una ristretta cerchia di appassionati. Una immaginifica favola al femminile che miscela con sapienza avventura e melodramma, azione e saggezza buddhista, morale e lirismo. Lo spettatore può ritrovare l'antico senso cinematografico della meraviglia grazie ai combattimenti coreografati da Yuen Wo-Ping – già al lavoro in Matrix di Andy e Larry Wachowski, 1999 – con i protagonisti che sfidano letteralmente la forza di gravità. L'estremo oriente irrompe nella cultura occidentale attraverso un puro spettacolo per gli occhi, che unisce alla perfezione autorialità e codici mainstream. Quattro Oscar: miglior film straniero, miglior fotografia (Peter Pau), miglior colonna sonora (Dun Tan) e miglior scenografia (Tim Yip).
Hero di Zhang Yimou (2002)

Da sempre abituato a sceneggiature fortemente lineari, Zhang punta qui su una narrazione a mosaico, con ben sei flashback: un sistema a “scatole cinesi”, dove verità e menzogna si mescolano e si confondono. Il regista gioca coi colori (modificandoli di volta in volta) e con le aspettative di uno spettatore che diventa pedina attiva di un gioco fortemente coinvolgente, dove le differenti versioni raccontate possono rimandare a Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Il regista porta alla luce la verità un poco alla volta e, nel frattempo, dà vita a uno spettacolo audiovisivo impressionante, dove i duelli sembrano dei soavi balletti in cui suoni e immagini danzano all'unisono.
La foresta dei pugnali volanti di Zhang Yimou (2004)

Dopo l'ottimo Hero (2002), Zhang Yimou prosegue sulla strada del wuxiapian, aumentando ancor di più le acrobazie, l'avventura, il ritmo e lo spettacolo. Diversi passaggi sono visivamente impressionanti (merito anche della fotografia di Ziao Xhiaoding e delle coreografie di Ching Siu-tung) seppur, a tratti, il regista si faccia un po' troppo prendere la mano rischiando l'esagerazione e il cattivo gusto. L'atmosfera si fa sempre più epica col passare dei minuti, il triangolo tra i protagonisti funziona, anche se non manca qualche passaggio eccessivamente ridondante. Meraviglioso, in ogni caso, l'uso che il regista fa dei colori, siano essi della natura o dei costumi dei suoi personaggi.
The Assassin di Hou Hsiao-hsien (2015)

Folgorante ritorno dietro la macchina da presa per Hou Hsiao-hsien, a ben otto anni di distanza dal precedente Le voyage du ballon rouge (2007). Il regista firma una potentissima e abbagliante decostruzione del genere wuxia, lavorando in maniera astratta e metafisica sulle coordinate spaziali e temporali della propria messa in scena. Il maestro taiwanese più che girare, dipinge cinema: la sua è una sinfonia per immagini che spinge lo spettatore a perdersi in un marea di tableaux vivants che si susseguono uno dopo l’altro, come in una visione onirica dai colori superdefiniti e dalle tonalità estremamente sature. Soffermarsi sugli innumerevoli dettagli della trama, in parte abbastanza prolissi e oltremodo minuziosi, appare pertanto un esercizio tanto meccanico quanto sterile: il cinema di Hou, all’alba del 2015, è ormai solo e soltanto un irripetibile esempio di amore assoluto per la creazione artigianale e per il culto amorevole di ciascuna inquadratura.