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Dentro Iddu – L'ultimo padrino: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza raccontano l’ombra della mafia che segna la Sicilia

Iddu - L’ultimo padrino non è il classico film sulla mafia. Non ci mostra nulla di ciò che siamo abituati a vedere. Con questo film, Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci invitano in una Sicilia che non troverete sulle cartoline, né nei racconti polverosi dei film che già conosciamo. Qui non c’è posto per le classiche scene di clan in guerra, per il fumo che aleggia nelle stanze dei boss, per i rituali di affiliazione che tanto affascinano il grande schermo. No. Iddu è qualcosa di diverso. È una storia che danza ai bordi della leggenda e della realtà, sfiorando appena la figura di Matteo Messina Denaro, colui che è stato per decenni l’ombra più sfuggente d’Italia. Messina Denaro non è mai stato un boss di mafia, in senso classico, né avrebbe voluto esserlo. Un uomo colto, raffinato, che citava Daniel Pennac. E, soprattutto, un uomo quasi invisibile. È riuscito a mimetizzarsi, a confondersi nel tessuto della Sicilia come una radice antica e profonda. E, proprio come lui, Iddu si insinua nelle pieghe nascoste di questa terra. Lontano dai riflettori, lontano dagli stereotipi. Perché la mafia, in questo film, non è un'organizzazione che impone, minaccia, fa rumore. No. Qui la mafia è un sussurro, un peso invisibile che grava sulle spalle della gente, un potere così radicato da diventare indistinguibile dal paesaggio stesso. È come se tutto fosse contaminato, ma senza un segno apparente. Come un’influenza che penetra nelle case, nelle strade, nei volti. Grassadonia e Piazza ci raccontano di un potere che si respira nell’aria ma che non si può toccare, che non appare ma che tutti sentono. In Iddu, il paesaggio siciliano non è soltanto una cornice, ma un protagonista. Ed è intriso di quella stessa tensione, di quel senso di irrequietezza che è il tratto caratteristico di Matteo. È una terra sospesa, una Sicilia in cui non ci sono spari ma c’è paura, in cui il boss non si vede mai eppure il suo fantasma sembra essere dappertutto. È il potere del non detto, del non visto, una ragnatela invisibile di complicità e di silenzi che avvolge ogni cosa. È così che Iddu non racconta semplicemente una storia di mafia. Racconta il modo in cui il potere può nascondersi in piena vista, il modo in cui una presenza può diventare assenza e viceversa. Grassadonia e Piazza ci guidano in questo viaggio attraverso una Sicilia in cui ogni angolo, ogni ombra, ogni sguardo hanno un peso. È la Sicilia di Messina Denaro, ma potrebbe anche essere una Sicilia universale, quella di un potere che si ritira nell’ombra e vive della paura degli altri. Un potere che, come Iddu, non ha bisogno di dichiararsi per essere percepito. Perché è già ovunque.



Come è nata l'idea di questo film e cosa vi spinti a raccontare questa storia?

Fabio: L'idea è nata dallo studio della figura del all’epoca latitante Matteo Messina Denaro. Al di là di tutti gli atti processuali pubblici che abbiamo studiato, quello che ci colpiti è ciò che è emerso da questi famosi pizzini. Nel corso degli anni della sua latitanza la polizia e i carabinieri spesso sono riusciti a rintracciarli e molti sono poi diventati di pubblico dominio. In particolare, ci aveva molto colpito il tratto della personalità di questa figura criminale che emergeva dai pizzini. È molto diversa dagli stereotipi del mafioso che siamo stati abituati a conoscere e anche da come essi sono stati messi generalmente in scena sia nelle fiction sia nei film. Quella che emergeva era la personalità di un infantile narciso, un grande mistificatore, un grande manipolatore che amava mettersi in scena rispetto agli interlocutori in modo diverso. Quindi, questo patologico infantile narciso ci ha colpiti perché era evidente questa capacità di modulare tono e linguaggio rispetto agli interlocutori. Altra cosa che ci ha colpiti è stato un uso frequente di libri da parte sua, che è una cosa molto strana per questo tipo di figure. Poi si è scoperto in tempi più recenti che era un grande appassionato di cinema e sono state ritrovate centinaia di DVD nei suoi covi. Insomma, questa cosa ci è sembrata interessante. Emergeva però anche il tipo di mondo con il quale lui era in relazione, un mondo naturalmente tragico perché le conseguenze sulla società sono tali, ma allo stesso tempo anche quintessenzialmente ridicole. Così, quando ci siamo imbattuti nel carteggio con questo ex sindaco del suo paese d'origine, che si è sviluppato fra il 2004 e il 2006 e in cui emergeva in maniera potente e molto chiara la ridicolaggine di questo mondo, era il soggetto giusto per un certo tipo di commedia, che era quello di cui noi andavamo un po' alla ricerca. Questo ci permetteva di chiudere questa trilogia in cui ci siamo confrontati con questo genere, con la commedia, e con questi due tipi di personaggi che abbiamo messo a fuoco e abbiamo ricreato molto liberamente, per restituire la consistenza miserabile del mondo che produce questo tipo di contesto e di società


Il titolo stesso, Iddu, è molto forte ed evocativo. Qual è il significato che volevate trasmettere già soltanto attraverso la figura del protagonista e attraverso il titolo del film?

Antonio: Come tanti altri elementi del film anche questo viene dalla realtà, dallo studio del caso Matteo Messina Denaro e della sua latitanza. Iddu è uno dei suoi soprannomi. Matteo ne avuti parecchi, perché la Sicilia è una terra di soprannomi, come lo è anche l'ambito della criminalità organizzata. I soprannomi si usano frequentemente in quel mondo. Tra i tanti soprannomi che gli sono stati affibbiati figurava anche “Iddu”, innanzitutto perché nei suoi confronti c'era una sorta di timore reverenziale persino a pronunciarne il nome, quindi si faceva ricorso a un pronome che significa “lui” in siciliano. Poi perché era frequente l’uso, come si vede anche un po’ nel film, di puntare gli occhi al cielo nel pronunciare la parola “Iddu”, come se si parlasse di una persona che si trova in alto. Per cui, “Iddu”, in un certo senso diventa anche colui che sta sopra di noi. Chiamare il film in questo modo voleva dire mettere il personaggio al centro di un mondo che gli volteggiava spericolatamente intorno, e per quanto riguarda il film si tratta di tutti questi personaggi anche un po' ridicoli, compresa la sua famiglia, che gli volteggiano attorno e consentono questa latitanza. Poi, ovviamente, già nei soprannomi stessi si insinua il ridicolo. E quindi già dal fatto che tutti abbiano dei soprannomi comincia un po' quello che è il gioco che vuole dare quel tono al film.
Fabio: Aggiungo che c'è sempre un gioco di specchi ironico nella costruzione di questo film. Siamo proprio sicuri che il film ci stia raccontando di iddu? O forse ci sta mettendo allo specchio, davanti a un certo tipo di società, di cultura e di ambiente? Questo gioco di specchi per noi è contenuto anche nel titolo. È una stratificazione successiva, però in qualche modo questo film, che apparentemente è concentrato solo su iddu, in realtà forse è di noi che sta parlando


I protagonisti del film hanno un grande spessore anche psicologico, in particolare il protagonista, Matteo, ovvero il personaggio di Elio Germano. Come avete lavorato con gli attori, e in particolare con Elio, per sviluppare un personaggio così complesso?

Antonio: Innanzitutto approfondendo questo spessore psicologico, appunto. Come accennava Fabio prima, ci siamo concentrati sullo studio dei suoi pizzini, sul fatto che fosse in grado di modulare il suo tono rispetto all’interlocutore e sul fatto fosse una figura abbastanza insolita rispetto a un classico boss mafioso. Nell'immagine collettiva il boss mafioso siciliano viene associato a Totò Riina o Bernardo Provenzano. Si tratta di semianalfabeti, che noi ci immaginiamo in un casolare a mangiare ricotta e cicoria. Invece dalle lettere di Matteo emergeva qualcos’altro. In questo carteggio con l'ex sindaco lui citava Daniel Pennac e il protagonista dei suoi libri, cioè Malussin. Riteneva di essere un capro espiatorio, proprio come Malussin, naturalmente all'interno di una narrazione di sé che tende sempre a mistificare. Citava Toni Negri, faceva dichiarazioni di ateismo e discussioni filosofiche. Però il tutto, come è stato confermato quando lo hanno arrestato e quando hanno trovato tutti i libri nel suo covo o le conversazioni registrate che lui mandava a queste amiche della chemioterapia, ci è sembrato che alla fine dipingesse il ritratto di un narciso patologico. Un uomo dall'ego spropositato, un grande mistificatore, un narcisista che rimane eternamente figlio e quindi anche un po' infantile. Siamo partiti da lì, e ci siamo presi anche un azzardo perché il nostro lavoro è iniziato prima dell'arresto. Questa riflessione l'abbiamo poi condivisa con Elio, che l'ha fatta sua attraverso quello che è il lavoro dell'attore, e che quindi ha cercato di restituire. Ovviamente per lui c'è stato anche un altro aspetto del lavoro, ovvero l’avvicinarsi al modo di parlare di Matteo, trasferendosi a Castelvetrano per studiarne il dialetto e ascoltando moltissimo gli audio originali per riuscire a capire quali erano i meccanismi anche psicologici che si nascondevano dietro ogni tipo di conversazione di Messina Denaro.
Fabio: Sia noi, sia Elio nel lavoro di approccio al suo personaggio, ma in generale anche di tutti gli altri personaggi, anche accentuando alcune sfumature diverse, siamo partiti da dati di fatto, da persone realmente esistite o esistenti. E, soprattutto, lo abbiamo fatto senza alcun pregiudizio. Lo abbiamo fatto cercando di capire la psicologia di queste persone e in quale brodo di cottura primordiale si è formata, perché dallo studio del nostro protagonista ci siamo resi conto che la figura che dato forma al suo modo d’essere era il padre. Questa relazione col padre è stata sempre centrale, nella sua formazione e nella sua vita. Quindi era importante approcciarsi a lui con una certa accuratezza psicologica, perché proprio da questo tipo di relazioni con figure paterne di questo tipo, prende forma un determinato mondo.

Faccio una domanda che si lega all'ultima cosa che avete detto, e che può aiutare chi non ha visto il film a farsi un’idea. Quanto è importante la dinamica familiare e come si interseca con il tema della mafia?

Fabio: È fondamentale. Per noi è stata la base di riflessione su cui abbiamo costruito tutti e tre i nostri film, che presentano tre storie diverse, declinate all'interno di generi cinematografici diversi. È proprio in questa dura, ancestrale forma di patriarcato che una società è marcita. Il padre di Matteo ha individuato immediatamente in lui il suo erede, sin da bambino, pur non essendo il figlio maschio più grande. Lo ha isolato, lo ha preso sotto la propria ala, l'ha cresciuto e allevato per essere quello che ci si aspettava dovesse essere, e che poi è stato. E noi raccontiamo come questa strana e perversa educazione sentimentale finisca poi per imprigionare chi la riceve all'interno di una certa forma di vita, senza alcuna possibilità di venirne fuori.


La Sicilia stessa sembra essere quasi un personaggio a sé stante in questo film. In che modo le location che avete scelto hanno contribuito a creare un certo tipo di atmosfera durante la lavorazione?

Antonio: Il film è stato girato nei luoghi che appartengono alla storia di questa latitanza. Abbiamo girato nel territorio di Castelvetrano, nel territorio di Campobello di Mazara, mentre le scene in spiaggia e i flashback sono state girate alla foce del fiume Belice. Abbiamo girato a Salemi, a Trapani. Quindi stiamo parlando della provincia nella quale si consuma tutta la vicenda di Matteo Messina Denaro e di suo padre. Il tema della prigionia è però importante, perché c'è una dimensione claustrofobica che abbiamo voluto raccontare e che riguarda la loro dimensione di vita, non solo di quella di Matteo, prigioniero della sua situazione. Lo stesso discorso, ad esempio, vale anche per Catello, per cui si tratta anche di un film di interni, di persone che si scambiano delle lettere. Quindi raccontare come queste case diventino prigione è importante. Della Sicilia, invece, noi stiamo sempre attenti a scegliere luoghi che abbiano un significato all’interno della storia e che non siano cartoline turistiche. Questo appartiene ad un tipo di ricerca che abbiamo condotto per tutti e tre i nostri film (Salvo del 2013, Sicilian Ghost Story del 2017), per raccontare una Sicilia che non è detto il pubblico conosca. Perché poi nell'immaginario popolare la Sicilia è mediterranea, ne rimane sconosciuta una parte altrettanto interessante. In Sicilian Ghost Story, ad esempio, abbiamo raccontato la Sicilia dei Nebrodi, dei boschi e dei laghi.
Fabio: Quello che ci interessava era mostrare sempre degli spazi aperti, in cui la natura sembra incontaminata, spazi in cui si apre anche l'orizzonte del mare. A noi interessa valorizzare il contrasto con una storia di anime che poco per volta rimangono intrappolate, si confinano in uno spazio chiuso e privo di orizzonti, che per noi è paradossale rispetto a una terra che è un'isola e quindi si apre al mare, a tutti gli orizzonti possibili e ad ogni latitudine. Eppure ci sono alcuni personaggi, alcune anime, che rimangono intrappolati in una dimensione di vita che non riesce davvero ad avere un rapporto vitale con l'immenso dono naturale che quest'isola fornirebbe


Quali sono le difficoltà o le sfide che si possono trovare nell'approcciarsi a un tema così delicato come quello della mafia siciliana?

Fabio: I rischi sono tanti. Noi studiamo molto ciò che ha a che fare con la Sicilia, per interesse personale, da sempre. Quindi guardiamo molto anche al modo in cui, negli ultimi anni, sono stati raccontati il fenomeno mafioso, gli ambienti mafiosi e i personaggi mafiosi. Non solo in Sicilia, ma anche in altre regioni quali la Campania. E ci è sembrato che, ormai da tempo, una certa spinta propulsiva di un cinema di denuncia sociale sia venuta meno. Ci si è cristallizzati all'interno di una forma stereotipata di narrazione, che crea anche delle aberranti o comunque molto discutibili mitologie. La materia che noi trattiamo ci riguarda personalmente, perché siamo cresciuti e ci siamo formati in Sicilia negli anni ’80 e ‘90, quindi in un contesto storico che è stato fra i peggiori vissuti dall'isola e dall'Italia. Così, quando si riflette su certi temi che ci sono cari, diventa fondamentale non rimanere all'interno di certe griglie interpretative, di certe mitologie o possibili epicizzazioni. Preferiamo stare lontano da un piatto messaggio antimafioso, in cui ci sono i mostri e ci sono le persone perbene che sono vittime. In realtà è un mondo più stratificato. Non esistono mostri, esistono esseri umani come noi che hanno avuto esperienze diverse di vita, hanno rielaborato diversamente il rapporto con l'ambiente circostante, con la propria famiglia, e sono diventati quelle che sono diventati, ma esseri umani come noi. Per questo, per noi, era importante assumerci questo tipo di scommessa e di rischio in quanto autori siciliani, e sforzarci anche grazie ad un approfondimento psicologico di cogliere l'essenza della palude nella quale siamo rimasti impantanati.


Solitamente il pubblico come si rapporta a questi temi molto delicati? Come viene accolto questo tipo di rappresentazione?

Antonio: Ovviamente già possiamo fare un bilancio, perché il film è uscito circa cinque settimane fa ed è stato preceduto da una settimana di anteprime in Sicilia. Era giusto porsi alcune domande, perché sono temi difficili e noi siciliani talvolta tendiamo alla rimozione del problema. Vorremmo quasi dimenticarcene e non parlarne più. Un film che va di nuovo a insistere su questo tema ha sicuramente dato fastidio a qualcuno. Quindi anche rispetto a quella che poteva essere la reazione del pubblico, e in particolare di quello siciliano, era giusto porsi qualche interrogativo. È stata una scelta condivisa con la produzione e con la distribuzione quella di cominciare a presentare il film partendo dalla Sicilia, perché significava parlare con il pubblico siciliano. Durante la settimana di anteprime abbiamo trovato sempre sale piene, ma soprattutto un pubblico che non era lì per fare polemica come ci si sarebbe potuto aspettare. Il film era stato già preceduto da varie discussioni, ma il pubblico era felice e curioso di vedere questo film. Questa sensazione molto forte, molto positiva che abbiamo sentito in quella settimana, poi si è confermata nelle settimane successive quando il film è uscito, perché ha avuto un buon risultato al box office in tutta Italia e in particolare in Sicilia. Questo è un segno del fatto che ci sono degli interrogativi, che riguardano la storia siciliana e la storia d’Italia, che si possono affrontare anche con un film che vuole dissacrare certe figure, che vuole riderne, che vuole usare il tono del grottesco. Il film può anche non essere di immediata comprensione, perché non si inquadra immediatamente in certe categorie molto diffuse in Italia. Non è il film di denuncia in senso classico, non è un film politico in senso classico, pur essendo per noi fortemente politico. Quindi, il bilancio è positivo, abbiamo superato i trecentomila spettatori che ci eravamo dati come traguardo.
Fabio: Per quanto mi riguarda, in senso personale, quello che a me piace è il fatto che sono tante le richieste scolastiche. Ci era già successo con Sicilian Ghost Story, e anche in quell’occasione gli incontri con il pubblico delle scuole erano stati i più divertenti e anche i più liberi. Un’altra cosa che ci piace è il fatto che il pubblico entri in sala con un pregiudizio, pensando di andare a vedere la solita storia sul boss mafioso un po' mitizzato, e invece poi dicono "È molto diverso da quello che ci aspettavamo, per fortuna". Anche coi ragazzi è successo. Ad alcuni era stato detto di non andare a vedere un film così, invece con loro poi si sviluppa un dialogo molto intenso e che riguarda anche le possibilità per il loro futuro. Quindi l’aver disatteso le aspettative che molti avevano sul nostro film per noi è l'aspetto più importante, perché era proprio quello che cercavamo


Voi lavorate da parecchio tempo insieme. Come si svolge il processo creativo a quattro mani su un progetto così intenso? C'è una divisione naturale dei ruoli oppure vi confrontate?

Fabio: Noi lavoriamo assieme da tempo perché, ancor prima di fare i nostri film, abbiamo cominciato a lavorare da sceneggiatori. Quando sei sceneggiatore lavori sempre con altre persone e quindi c’è sempre questo confronto continuo, anche intenso, che porta a tirare fuori sempre più cose. Quello che facciamo è individuare prima un argomento. Poi cominciamo a studiarlo, ognuno prende le proprie note e fa le proprie riflessioni. Poi, quando questo lungo processo di studio si conclude, cominciamo un confronto su ciò che ci ha colpiti, ciò che ci piace, ciò che ci piacerebbe sviluppare. L'elaborazione tematica iniziale e quella del primo trattamento della storia si sviluppano assieme, anche con l'elaborazione della scaletta. Quando poi arriva il momento di scrivere la sceneggiatura ci dividiamo il lavoro. Magari ci sono personaggi o situazioni che a uno di noi due fa più piacere scrivere, allora l'altro scrive il resto. Però si ricontrolla tutto insieme, si interviene, si riscrive. Quando poi finalmente siamo entrambi tranquilli, ripartiamo. Allora comincia a nascere il copione vero e proprio, e quando termina la prima stesura arriva una nuova fase di confronto, anche con il produttore. Questo tipo di scambio prosegue sul set, e anche in fase di montaggio. Però la fase più intensa e quella che tutti si aspetterebbero essere più conflittuale è quella di scrittura. Quando pensiamo che da un punto di vista drammaturgico la storia sia ben sviluppata, cominciamo anche a pensare a una riscrittura del copione in vista della messa in scena. Come vogliamo mettere sullo schermo questa storia? Quale punto di vista vogliamo sposare per raccontare questa cosa? Allora quando arriviamo sul set un certo tipo di riflessione sulla messa in scena è già sviluppato, e questo aiuta tutti, dallo scenografo al direttore della fotografia, a capire quello di cui siamo alla ricerca. Così il lavoro sul set diventa più rapido


Durante il processo creativo di questo film ci sono stati dei momenti di divergenza che si sono rivelati utili per il progetto finale?

Antonio: Sicuramente ci sono stati, ma nella mia memoria si sono persi. So che abbiamo litigato ma quando, come e perché non lo ricordo. Per qualsiasi film è così, non solo per noi che lavoriamo in due. Anche perché, di norma, per la scrittura della sceneggiatura c’è più di una persona e anche più di due che ci lavorano. Per la regia è più raro perché, per dirigere insieme, oltre a condividere un punto di vista creativo bisogna condividere anche la propria visione del mondo con l’altro. Quindi capita di avere delle opinioni diverse, però le persone con cui collaboriamo di solito mettono da parte il loro ego al servizio dell’idea migliore per il film. Quindi non c'è compromesso, non c’è trattativa. Si cerca di capire, ovviamente ognuno difende le proprie ragioni, che non sono sbagliate in sé, ma quando vai a scrivere un film devi trovare un equilibrio, devi trovare un focus narrativo, devi capire come mettere a fuoco certi personaggi.
Fabio: Anche perché la scrittura non si esaurisce con il copione, ma prosegue con il montaggio. E quello è un momento in cui tu accogli in maniera creativa il montatore, nel nostro caso Paola Freddi. Il montaggio è un processo a cui il nostro produttore Nicola Giuliano ama partecipare molto intensamente, quindi è un processo in cui bisogna allargare la possibilità ad altri di dare il proprio contributo in senso creativo. E quando, come diceva Antonio, capita di potersi confrontare con persone che mirano ad ottenere ciò che è meglio per il film, bisogna trovare insieme l'equilibrio per ottenere il meglio che una situazione può offrire, alla luce di quello che sei riuscito a girare sul set. Nel corso degli anni, maturando esperienza, noi abbiamo capito sempre di più come controllare il nostro ego, le nostre motivazioni e come capire le scelte altrui. Questo ci aiuta a vedere se davvero si aprono quelle possibilità rispetto alle quali noi, chiusi nella nostra riflessione, magari non riusciamo a vedere. E accade soprattutto in fase di montaggio, anche quando cominci a inserire le musiche.


Che consiglio vorreste dare ai registi alle prime armi che vogliono raccontare delle storie intense come la vostra? Quali qualità possono essere ritenute indispensabili per chi si avvicina a temi così impegnativi?

Fabio: Per quanto mi riguarda, non bisogna mai sottovalutare il primo momento, cioè quello di studio e di approfondimento. Perché possiamo avere delle idee, però per capire quali prospettive tematiche si aprono bisogna scavare nella materia di cui queste idee hanno bisogno di nutrirsi. Quindi lo studio iniziale è un momento molto importante. Poi, come è successo a noi per i primi film, se ci si mette in gioco sia come scrittore sia come regista, forse bisogna partire da ciò che riguarda te stesso, la tua esperienza, il senso di essa e come è maturata. Questo può aiutare a non andare incontro alle aspettative di mercato e alle richieste degli altri. Scavare dentro te stesso e capire come mettere mano su quello che trovi è importante per cominciare a dare forma alla tua voce.
Antonio: Abbiamo spesso a che fare con giovani registi o sceneggiatori nell'ambito di alcuni laboratori. Ci capita più spesso all'estero che in Italia, a volte anche qui qualcuno ci fa leggere delle cose. In particolare mi piacerebbe che i giovani avessero voglia di scrivere dei film per i quali abbiano eventualmente anche voglia di pagare il biglietto. Mi spiego meglio: devono scrivere film che loro stessi ritengono necessari e film di cui volentieri sarebbero spettatori, non
solo perché l'hanno scritto e diretto loro, ma perché si divertirebbero ad andare a vedere quel film. Bisogna scrivere film che ti diverte fare, perché tu sei il primo spettatore di te stesso.
Fabio: Sì, bisogna puntare a fare un film che ti stimoli, che abbia ragioni profonde e che interroghi l'autore mentre lo sviluppa ma anche il pubblico in sala.
Antonio: E non solo perché il produttore ti offre la possibilità di farlo oppure perché pensi di poter arrivare a chissà quale festival, ma perché devi raccontare una storia che ti sembra necessaria. E se è necessaria per te, magari lo può diventare anche per il pubblico.

Si ringrazia 01 Distribution per la possibilità, e gli intervistati per la cordialità dimostrata.



Carmen Apadula

Maximal Interjector
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