Era il 1962 quando, di fatto, nasceva il fumetto nero italiano. Grazie al genio di Angela Giussani, fumettista ed editrice milanese, affiancata fin da subito dalla sorella minore, Luciana, nasceva Diabolik: la seducente morbosità della cronaca nera, le tinte forti del romanzo d'appendice e gli eccessi del pubblicazioni illustrate di facile consumo trovavano un perfetto punto di contatto, assumendo una forma d'espressione inedita. Una svolta epocale all'interno del fumetto made in Italy, fino a quel momento ancorato a schemi improntati a una inequivocabile moralità, a una edificante visione del mondo quasi del tutto priva di zone d'ombra in cui inserire eventuali suggestioni noirish.
Con l'avvento di Diabolik, "Un criminale e non un giustiziere", secondo le parole di Angela Giussani, il processo di identificazione del lettore nei confronti dell'eroe subisce uno scossone non da poco, trovando nel ribaltamento del canonico ruolo "protagonista buono" / "antagonista cattivo" una assoluta carta vincente. Per quanto non si possa godere in maniera sfacciata per l'ennesimo, sofferto insuccesso dell'integerrimo ispettore Ginko, puntuale come una cambiale che scade, è altrettanto vero che il tifo sia tutto per Il Re del Terrore, suggestivo epiteto nato dal titolo del primo albo della serie, pubblicato nel novembre '62. Impossibile rimanere indifferenti al fascino della seduzione della progressiva discesa in un mondo fatto di omicidi (come dimenticare lo "Swiss" onomatopeico del pugnale lanciato verso il malcapitato di turno), colpi (tutta un'altra allure rispetto a "rapine" o "furti"), rifugi, rocambolesche fughe in auto (la mitica Jaguar E-Type, che passa sempre incredibilmente inosservata), congegni a sorpresa e maschere per celare la propria identità. Un successo popolare senza precedenti, che fa leva su tutto ciò che il grande pubblico desiderava ma, forse, non osava chiedere.
Molto interessante il fatto che il 1962 sia anche l'anno della nascita del James Bond cinematografico, altro mito senza tempo che rileggeva la cultura "bassa" a cui faceva riferimento, in questo caso il B-movie spionistico e di avventura, a suon di location esotiche, belle donne, glamour e violenza, intercettando il desiderio di evasione di un pubblico pronto a vivere una vita da sogno per almeno la durata di un film.
A Clerville, città di fantasia dai nomi delle vie d'antan in cui è ambientato il fumetto (Via dei Tigli, che meraviglia!), i rigidi ruoli archetipici a cui adersicono i personaggi sono trapassati, come una lama nel buio, dall'amore indissolubile che si consuma tra Diabolik e la sua insostituibile compagna, Eva Kant, bellezza luminosa dai tratti modellati su quelli di Grace Kelly. Nel loro rapporto, a prima vista fortemente sbilanciato in termini di dominazione maschile e sottomissione femminile, risiede uno degli elementi più suggestivi di tutto il fumetto. Sorta di pigmalione/padre/amante, Diabolik è il suo uomo, il rapporto tra i due è basato su una assoluta fiducia reciproca e su sentimenti spesso taciuti, perché a volte uno sguardo vale più di mille parole. L'amore per Eva, magnificamente stilizzato in baci degni di Klimt o Hayez, è l'unico scopo di vita concreto per Diabolik, affiancato a quello utopico di "agente del caos" ante litteram, di ribelle verso l'ordine (borghese) precostituito, di criminale, a suo modo gentiluomo, votato all'impossibile nel tentativo di superare narcisisticamente i propri traguardi.
Forte del suo debordante appeal commerciale, il fenomeno Diabolik spazia tra le arti e, nel decennio pop per eccellenza, gli anni '60, non poteva che arrivare anche al cinema, grazie alla spericolata audacia del sempre poco celebrato maestro del cinema di genere Mario Bava. Coloratissimo e psichedelico antesignano dei moderni cinecomics, in netto contrasto con l'essenzialità del bianco e nero del fumetto, il Diabolik di Bava, co-produzione italo-francese del 1968 distribuita da Paramount Pictures, si basa liberamente su tre diversi albi creati dalle sorelle Giussani (Lotta disperata, L'ombra della notte e Sepolto vivo!), assemblati in maniera visibilmente forzata, ma quel conta non è certo il susseguirsi degli eventi narrati. Ingenuo all'inverosimile ma vibrante di uno spirito naïf oggi non più lontanamente replicabile, il film vale come testimonianza sixties di linguaggio astratto applicato al cinema, tra Pop art, Optical art e omaggio alle linee di forza futuriste nella costruzione delle inquadrature. Bava imprime il proprio tocco autoriale attraverso la sua consueta ricerca cromatica, spingendo sul pedale dell'antinaturalismo e dell'artificio estetico. Un magnifico giro in giostra che va preso per quello che è, abbandonandosi senza troppe pretese agli effetti speciali artigianali, a cui ha collaborato anche Carlo Rambaldi, alla ricostruzione scenografica d'impatto e al trascinante beat della soundtrack di Ennio Morricone.
Gli svarioni genuinamente kitsch non si contano, così come le sequenze passate agli annali: impossibile dimenticare il colpo alla sontuosa dimora di Lady Clark, con Diabolik che scala la torre del castello indossando eccezionalmente il costume bianco e non nero per mimetizzarsi (!), oppure l'incandescente amplesso consumato da Diabolik ed Eva Kant tra migliaia di banconote. Ottimo Michel Piccoli come Ginko, perfetta Marisa Mell nei panni di Eva Kant, rivedibile invece il Diabolik di John Phillip Law, attore più adatto a interpretare un impiegato del catasto che non un invincibile e affascinante criminale.
Sulla scia del successo ottenuto anche grazie alla visibilità del mezzo cinematografico, Diabolik entra a pieno diritto tra le icone rese immortali dalla Pop art, movimento artistico nato alla fine degli anni '50 in Inghilterra grazie al genio di Richard Hamilton, diversi anni prima della ben più celebrata frattura culturale operata da Andy Warhol & co. su territorio americano. E tra gli esponenti di spicco della Pop art italiana, accanto a Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa, svetta il nome di Mimmo Rotella.
Artista cardine che partecipa attivamente a una fase di fermento creativo senza precedenti nel '900 italiano, con Roma a ricoprire il ruolo di epicentro culturale, Rotella rivoluziona il panorama artistico nostrano già dalla metà degli anni '50 facendo propria l'intuizione del décollage, tecnica Neo-Dada utilizzata, ad esempio, anche dai coevi Raymond Hains e Jacques Villeglé in Francia. Così, attraverso un procedimento opposto al collage, il manifesto pubblicitario strappato diventa opera d'arte, la gestualità istintiva dell'informale si sposa alle istanze del Nouveau Réalisme, l'effimero ciclo di vita dell'oggetto comune imposto dal consumismo trova un significato altro e si cristallizza per l'eternità. Tra i soggetti di maggior successo figurano le locandine cinematografiche, simboli pop per eccellenza: ecco allora Casablanca, La dolce vita e il volto di Marilyn, solo per fare qualche esempio, ma anche il Batman cult del 1966 o, appunto, il Diabolik di Mario Bava.
Ora, nel 2021, Diabolik sta per tornare di nuovo al cinema: azzardo anacronistico o rievocazione contemporanea del cinema di genere del tempo che fu? Inutile sbilanciarsi in previsioni fini a se stesse, l'unica cosa da fare è abbandonarsi alla visione. Incrociando le dita.
Davide Dubinelli
«Io sono un assassino, Eva. Se mi serve uccido. E la cosa mi lascia del tutto indifferente»
Con l'avvento di Diabolik, "Un criminale e non un giustiziere", secondo le parole di Angela Giussani, il processo di identificazione del lettore nei confronti dell'eroe subisce uno scossone non da poco, trovando nel ribaltamento del canonico ruolo "protagonista buono" / "antagonista cattivo" una assoluta carta vincente. Per quanto non si possa godere in maniera sfacciata per l'ennesimo, sofferto insuccesso dell'integerrimo ispettore Ginko, puntuale come una cambiale che scade, è altrettanto vero che il tifo sia tutto per Il Re del Terrore, suggestivo epiteto nato dal titolo del primo albo della serie, pubblicato nel novembre '62. Impossibile rimanere indifferenti al fascino della seduzione della progressiva discesa in un mondo fatto di omicidi (come dimenticare lo "Swiss" onomatopeico del pugnale lanciato verso il malcapitato di turno), colpi (tutta un'altra allure rispetto a "rapine" o "furti"), rifugi, rocambolesche fughe in auto (la mitica Jaguar E-Type, che passa sempre incredibilmente inosservata), congegni a sorpresa e maschere per celare la propria identità. Un successo popolare senza precedenti, che fa leva su tutto ciò che il grande pubblico desiderava ma, forse, non osava chiedere.
Molto interessante il fatto che il 1962 sia anche l'anno della nascita del James Bond cinematografico, altro mito senza tempo che rileggeva la cultura "bassa" a cui faceva riferimento, in questo caso il B-movie spionistico e di avventura, a suon di location esotiche, belle donne, glamour e violenza, intercettando il desiderio di evasione di un pubblico pronto a vivere una vita da sogno per almeno la durata di un film.
A Clerville, città di fantasia dai nomi delle vie d'antan in cui è ambientato il fumetto (Via dei Tigli, che meraviglia!), i rigidi ruoli archetipici a cui adersicono i personaggi sono trapassati, come una lama nel buio, dall'amore indissolubile che si consuma tra Diabolik e la sua insostituibile compagna, Eva Kant, bellezza luminosa dai tratti modellati su quelli di Grace Kelly. Nel loro rapporto, a prima vista fortemente sbilanciato in termini di dominazione maschile e sottomissione femminile, risiede uno degli elementi più suggestivi di tutto il fumetto. Sorta di pigmalione/padre/amante, Diabolik è il suo uomo, il rapporto tra i due è basato su una assoluta fiducia reciproca e su sentimenti spesso taciuti, perché a volte uno sguardo vale più di mille parole. L'amore per Eva, magnificamente stilizzato in baci degni di Klimt o Hayez, è l'unico scopo di vita concreto per Diabolik, affiancato a quello utopico di "agente del caos" ante litteram, di ribelle verso l'ordine (borghese) precostituito, di criminale, a suo modo gentiluomo, votato all'impossibile nel tentativo di superare narcisisticamente i propri traguardi.
Forte del suo debordante appeal commerciale, il fenomeno Diabolik spazia tra le arti e, nel decennio pop per eccellenza, gli anni '60, non poteva che arrivare anche al cinema, grazie alla spericolata audacia del sempre poco celebrato maestro del cinema di genere Mario Bava. Coloratissimo e psichedelico antesignano dei moderni cinecomics, in netto contrasto con l'essenzialità del bianco e nero del fumetto, il Diabolik di Bava, co-produzione italo-francese del 1968 distribuita da Paramount Pictures, si basa liberamente su tre diversi albi creati dalle sorelle Giussani (Lotta disperata, L'ombra della notte e Sepolto vivo!), assemblati in maniera visibilmente forzata, ma quel conta non è certo il susseguirsi degli eventi narrati. Ingenuo all'inverosimile ma vibrante di uno spirito naïf oggi non più lontanamente replicabile, il film vale come testimonianza sixties di linguaggio astratto applicato al cinema, tra Pop art, Optical art e omaggio alle linee di forza futuriste nella costruzione delle inquadrature. Bava imprime il proprio tocco autoriale attraverso la sua consueta ricerca cromatica, spingendo sul pedale dell'antinaturalismo e dell'artificio estetico. Un magnifico giro in giostra che va preso per quello che è, abbandonandosi senza troppe pretese agli effetti speciali artigianali, a cui ha collaborato anche Carlo Rambaldi, alla ricostruzione scenografica d'impatto e al trascinante beat della soundtrack di Ennio Morricone.
Gli svarioni genuinamente kitsch non si contano, così come le sequenze passate agli annali: impossibile dimenticare il colpo alla sontuosa dimora di Lady Clark, con Diabolik che scala la torre del castello indossando eccezionalmente il costume bianco e non nero per mimetizzarsi (!), oppure l'incandescente amplesso consumato da Diabolik ed Eva Kant tra migliaia di banconote. Ottimo Michel Piccoli come Ginko, perfetta Marisa Mell nei panni di Eva Kant, rivedibile invece il Diabolik di John Phillip Law, attore più adatto a interpretare un impiegato del catasto che non un invincibile e affascinante criminale.
Sulla scia del successo ottenuto anche grazie alla visibilità del mezzo cinematografico, Diabolik entra a pieno diritto tra le icone rese immortali dalla Pop art, movimento artistico nato alla fine degli anni '50 in Inghilterra grazie al genio di Richard Hamilton, diversi anni prima della ben più celebrata frattura culturale operata da Andy Warhol & co. su territorio americano. E tra gli esponenti di spicco della Pop art italiana, accanto a Mario Schifano, Franco Angeli e Tano Festa, svetta il nome di Mimmo Rotella.
Artista cardine che partecipa attivamente a una fase di fermento creativo senza precedenti nel '900 italiano, con Roma a ricoprire il ruolo di epicentro culturale, Rotella rivoluziona il panorama artistico nostrano già dalla metà degli anni '50 facendo propria l'intuizione del décollage, tecnica Neo-Dada utilizzata, ad esempio, anche dai coevi Raymond Hains e Jacques Villeglé in Francia. Così, attraverso un procedimento opposto al collage, il manifesto pubblicitario strappato diventa opera d'arte, la gestualità istintiva dell'informale si sposa alle istanze del Nouveau Réalisme, l'effimero ciclo di vita dell'oggetto comune imposto dal consumismo trova un significato altro e si cristallizza per l'eternità. Tra i soggetti di maggior successo figurano le locandine cinematografiche, simboli pop per eccellenza: ecco allora Casablanca, La dolce vita e il volto di Marilyn, solo per fare qualche esempio, ma anche il Batman cult del 1966 o, appunto, il Diabolik di Mario Bava.
Ora, nel 2021, Diabolik sta per tornare di nuovo al cinema: azzardo anacronistico o rievocazione contemporanea del cinema di genere del tempo che fu? Inutile sbilanciarsi in previsioni fini a se stesse, l'unica cosa da fare è abbandonarsi alla visione. Incrociando le dita.
Davide Dubinelli