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Dostoevskij, il contenitore di un'anima perduta
Dostoevskij è un corpo martoriato abbandonato in una roulotte. Dostoevskij è un luogo palustre sospeso tra limbo e purgatorio. Dostoevskij è un film. Si, un film di 5 ore diretto da Damiano e Fabio D’Innocenzo. Vista la sua recente e limitata uscita in sala, 11-17 luglio, quella che ufficialmente è una miniserie Sky Original in 6 puntate, può anche essere considerata lungometraggio, il quarto dei fratelli D’Innocenzo per la precisione. 

Già nella sua natura duplice, multipla, si legge l’unicità di quest’opera, un thriller seriale dalle tinte macabre, un noir televisivo à la True Detective, si potrebbe dire, oppure un’opera fiume, una bibbia dell’immaginario dei gemelli cineasti. Il risultato finale però è altro, lontano da qualsiasi definizione o facile catalogazione. Non solo per la durata del racconto, ma per la composizione della narrazione stessa, per le scelte assolutamente atipiche di filmare un giallo investigativo. Più vicina ad un’operazione artistica, ad un manifesto stilistico che ad un prodotto industriale. Eppure è anche cinema in purezza, un distillato di ciò che lo specifico filmico deve essere, dove scrittura, fotografia, scenografia e montaggio si alternano senza soluzione di continuità.

«Il caos in fila. La città dei figli sbagliati. Il contenitore», queste le parole sibilline che introducono il trailer di Dostoevskij dove già la trama essenziale è riassunta. Enzo Vitello (Filippo Timi) è a capo di una squadra di polizia che investiga sui misteriosi omicidi causati dal killer Dostoevskij, soprannominato così per le elaborate lettere che lascia vicino alle sue vittime. Non un movente, non un modus operandi, non un sospettato. Solo «quelle lettere». Vitello deve fare i conti con un’esistenza solitaria, tormentata da un rapporto di amore e (soprattutto) odio con una figlia che ha trascurato, e con svariate dipendenze da farmaci e cure sintetiche. L’ossessione per questo inafferrabile assassino risveglia in lui una nuova esigenza, una motivazione.

È anche un road movie Dostoevskij, l’azione si muove principalmente in non-luoghi, grandi spazi di provincia abbandonati e depressi, una frontiera lagunare senza punti di riferimento, senza un centro. Fatiscenti architetture del dopoguerra, casolari incrostati dal salmastro, palazzi brutalisti desolanti e mai monumentali. Un’area grigia e oscura a metà tra la Lousiana e quella America latina al centro del precedente film dei fratelli, con la differenza che ora anche le inflessioni dialettali scompaiono, privando di una vera identità locale sia i luoghi che i personaggi. 

Gli spazi sono sia il punto di partenza che quello di arrivo di Dostoevskij. Come più volte hanno affermato gli autori, i luoghi sono i protagonisti del film e i protagonisti umani divengono un tutt’uno con i luoghi che abitano. Un paesaggio dell’anima. Più ci addentriamo in esso più conosciamo i protagonisti. Perché le indagini non sono altro che un mezzo per scandagliare il tetro inconscio del nostro antieroe, un uomo spezzato dai suoi demoni. Sarà capace di affrontarli (e forse accettarli) solo terminando questa lunga catabasi. 

Il daimon e il pharmakon, dal greco antico, sono i due poli di Enzo Vitello. Il primo in quanto tensione divina, forza ultra-umana che tira le fila del suo ineluttabile fato. Il secondo inteso con il duplice significato di cura e di veleno, come le sostanze che ingerisce, ma anche come il percorso catartico che si impone di compiere. 

Dostoevskij è «il contenitore», termine che ritorna spesso, sia come confezione cinematografica e televisiva allo stesso tempo, sia come spazio sconfinato che riesce a racchiudere una pluralità di voci. Ma è contenitore anche in quanto materia. Il corpo, le ferite, i liquami pulsano su una pellicola Super 16 mai così palpabile. I tagli dei cadaveri si confondo con le imperfezioni del negativo. È un ritorno ad un cinema tangibile e fisico, non digitale e immateriale. 

Questo forse è il maggior pregio di Dostoevskij, un’opera che rimane, che non può che lasciare un profondo solco, un prodotto che va consumato con estrema cautela, ad alto rischio di indigestione per gli organismi non ancora educati. È un’esperienza in totale controtendenza all’odierno audiovisivo etereo e sfuggente, quindi necessaria.

Damiano e Fabio D’Innocenzo ci impongono di posare il nostro sguardo sul vuoto, di tenderci su un baratro, e l’unico modo per ottenere una soluzione, forse solo soggettiva, e lasciarsi trascinare fino al termine dell’abisso.


Cesare Bisantis
Maximal Interjector
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