Più bassi che alti nel giovedì del Far East Film Festival, aperto e chiuso da due film coreani. Kim Ji-young, Born 1982 ha aperto la giornata all'insegna del dramma, e va ad unirsi a Lucky Chan-sil e Vertigo in un ideale ciclo di opere dedite a raccontare la condizione femminile nella Corea contemporanea. Il film però manca sia dell'ironia del primo che della forza del secondo, nonostante una protagonista (Jung Yu-mi) molto brava. Tratto dall'omonimo romanzo di Cho Nam-joo, fenomeno letterario in patria, Kim Ji- young, Born 1982 racconta la storia di una donna che, in seguito alla maternità, viene progressivamente emarginata dalla società patriarcale coreana, e confinata al ruolo di madre e moglie. Il messaggio del film è nobile e meritevole di essere trattato con urgenza; e forse per questo motivo la regista, qui al suo debutto, non riesce a evitare che il contenuto prevalga sulla forma, con diversi passaggi fin troppo espliciti e dal sapore di "pubblicità progresso". E i continui salti temporali nel passato della protagonista soffrono del passaggio dalla carta al film.
Tutt'altro registro per The Closet, secondo film coreano in concorso della giornata, che purtroppo continua la tendenza di horror deludenti del festival (con la parziale eccezione del taiwanese Detention). I film coreani dell'orrore a tema sovrannaturale sembrano soffrire, negli ultimi anni, del confronto con il capolavoro Goksung; e la sorprendente scena iniziale, in stile found footage, sembra ispirarsi proprio al film di Na Hong-jin. Ma Kim Kwang-bin, qui al suo debutto, sceglie la strada più battuta e mette in scena, con esiti scontati e prevedibili, la solita minestra di case maledette, possessioni, bambine fantasma e jump scares a profusione. Il solitamente carismatico Ha Jung-woo (Mademoiselle) si limita a portare a casa la pagnotta e il film, ennesima variazione sul tema di Poltergeist (con l'armadio del titolo a fare da mangia-bambini), finisce col lasciare meno tracce degli ectoplasmi che mette in scena.
In una giornata ricca di opere prime è stato trasmesso anche il debutto della giovanissima Ning Yuanyuan, figlia d'arte del regista Zhang Yuan (Diciassette anni, La guerra dei fiori rossi), qui anche nel ruolo della protagonista. Il film è una coming-of-age story piuttosto convenzionale, incentrata sul rapporto tra due compagni di scuola i quali, sorpresi a tenersi per mano, vengono costretti a dare spiegazioni alla scuola e alle rispettive famiglie. La regista gira con evidente amore per la storia e per i propri personaggi, ma il film scorre via senza lasciar traccia e ha i suoi momenti migliori nel raccontare l'assurdità del sistema scolastico di una cittadina cinese di provincia, che costringe i giovani a fare autocritica per la colpa di innamorarsi e provare sentimenti. Purtroppo però Ning non sembra mai prendere una posizione decisa sul problema e preferisce concentrarsi sul rapporto tra i ragazzi e le loro famiglie.
Cervello spento e birra in mano, invece, per Line Walker 2: Invisible Spy, adrenalinico action made in Hong Kong e opera seconda di Jazz Boon. In questo seguito solo nominale del primo capitolo, il regista alza l'asticella della distruzione e punta a una rivisitazione hi-tech di Infernal Affairs. Anche i protagonisti (Nick Cheung, Louis Koo, Francis Ng) sono gli stessi del primo capitolo, proposti però in ruoli diversi, nei panni di tre sbirri che sospettano l'uno dell'altro di corruzione. Line Walker 2 è uno di quei film che mantengono quello che promettono, e lo fanno decisamente sopra le righe. Ogni difetto del film (il montaggio vertiginoso, le battute cheesy, gli effetti speciali digitali al limite del trash) può essere trattato al contempo come un pregio; e la verità è che per 90 minuti si ride e si rimane dritti sulla poltrona. Un film di puro intrattenimento, ennesimo melodramma a pistole spianate di un Paese che ha fondato sulla qualità dei propri action movie un'intera industria cinematografica.
Il film migliore della giornata, ed è ormai una costante, ce lo regala però Hirobumi Watanabe. È curiosa, ma a suo modo efficace, l'idea del festival di trasmettere i film del regista in ordine coronologico inverso, perché lascia svelare a poco a poco un percorso stilistico organico e uguale a nient'altro. Life Finds a Way è la riflessione metacinematografica e autobiografica di un regista poco più che trentenne. Quello che poteva essere un esercizio di stile un po' presuntuoso è invece un'opera matura e consapevole, che fa da ideale centro di propagazione delle cifre stilistiche dell'autore. Watanabe si mette in gioco in una serie di capitoli a loro volta composti da quadri sempre uguali, a confermare la centralità dell'idea di ripetizione nel suo cinema. Il regista racconta la storia della realizzazione dello stesso film, e lo fa partendo dalla ricerca di idee e finanziamenti alla sua realizzazione, che non risulta però nel climax dell'opera, ma nella sua stessa esistenza. Watanabe si mette in scena con tanta autoironia, come lo slacker che vive con la nonna circondato da riviste e da manifesti dei suoi film, perennemente vestito con la maglia della nazionale giapponese, impegnata nei mondiali di calcio. Torna Riko, la bambina che sarà protagonista di I'm Really Good, le musiche del fratello Yuji (con canzoni dei Triple Fire), la fotografia jarmuschiana di Bang Woohyun, e soprattutto la campagna della prefettura di Tochigi, teatro di tutti i film dell'autore.
Divertente e significativa la sequenza in cui Watanabe intervista i personaggi del film sullo stato del cinema in Giappone, che prelude a una sequenza onirica di autoanalisi memore di 8 1/2. Il ciclo su Watanabe si chiude oggi con la trasmissione di Party 'Round the Globe, e già ne sentiamo la mancanza.
La giornata prevede anche i drammi sentimentali Romance Doll e Suk Suk, e si chiuderà con l'action coreano Exit e l'horror malese Soul.
Marco Lovisato