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Far East Film Festival 22 - Il racconto della sesta giornata con il film-testamento di Nobuhiko Obayashi

Un mercoledì di titoli importanti al Far East Film Festival, in cui spicca l'ingombrante presenza (in tutti i sensi) dell'ultimo film di Nobuhiko Obayashi. La giornata si apre con Vertigo, di Jeon Gye-soo, titolo che fa pensare al capolavoro di Hitchcock; ma il film non è un thriller, almeno non in senso stretto. A fare paura è la realtà quotidiana di Seo-young, donna affetta da acufene e vertigini, impiegata (precaria) in un'azienda di Seoul. Passa le sue giornate in ufficio sperduta, in un ambiente arrivista e maschilista. Quasi invisibile, diventa tangibile solo in quanto oggetto di desiderio. Un giorno viene notata da Kwan-woo, giovane lavavetri del palazzo. Dal loro incontro, sbarrato comunque dalle finestre del grattacielo dove lavora Seo-young, si uniscono due prospettive: quella della donna, che guarda con timore l'edificio dal basso prima di entrarvi, e quella dell'uomo, che per lavoro si cala dalla sua cima. Vertigo è un dramma intimista, retto quasi esclusivamente dallo sguardo sofferente e smarrito della protagonista, la magnetica Chun Woo-hee. E lo sguardo, il punto di vista, è proprio il tema del film: quello di potere dei colleghi di Seo-young, quello empatico di Kwan-woo, quello giudicante della madre. Ma viene chiamato in causa anche lo sguardo dello spettatore, che è portato a chiedersi quante volte abbia assistito, consapevolmente o meno, a drammi come quello della protagonista. E l'annunciato finale liberatorio stona proprio in quanto sospiro di sollievo per il pubblico, piuttosto che soluzione ai problemi della ragazza e delle tante altre persone perse come lei in un continuo e alienante smarrimento.



A far venire le vertigini a noi, invece, è il tanto atteso Labyrinth of Cinema, lascito artistico del compianto Nobuhiko Obayashi, regista del capolavoro Hausu e già oggetto di una personale dedicatagli dal festival nel 2016. Un film che non sarebbe dovuto esistere, dato che, nello stesso anno in cui ritirava il Gelso d'Oro a Udine, a Obayashi venne diagnosticato un tumore ai polmoni che, secondo i medici, gli avrebbe lasciato solo pochi mesi di vita. Quei pochi mesi sono diventati quasi quattro anni: abbastanza da terminare il proprio progetto dei sogni (lo splendido Hanagatami, 2017) e realizzare Labyrinth of Cinema, lungo caleidoscopico vortice che è al contempo una lettera d'amore al cinema e un monito all'umanità, lasciato da un uomo che sta per salutarla. La storia, scandita dalle poesie di Chuya Nakahara, è quella di tre ragazzi che assistono all'ultimo spettacolo prima della chiusura di un cinema di Onomichi, città marittima che ha dato i natali al regista. Il cinema è una macchina del tempo, e il proiezionista il suo pilota: i ragazzi si trovano in un viaggio psichedelico lungo la storia del Giappone, del suo cinema e delle sue guerre. A fare da filo conduttore è la presenza di Noriko, curiosa ragazza ("voglio sapere di più attraverso i film", ci annuncia) dai molti ruoli, tutti accomunati da un apparente destino di morte. Se vi sentite sperduti, non preoccupatevi: a farci da Virigilio è Fanta G, musicista dall'aneddoto pronto che galleggia nello spazio nella sua navicella piena di pesci. "Questo film appassionato rappresenta il nostro augurio di pace al mondo" recita un cartello all'inizio, e Obayashi mette in scena quello che il titolo promette: i tre ragazzi saltano da un'epoca all'altra, imparando lezioni di umanità dalla storia del Giappone e dai film di Kurosawa, Ozu, Inagaki. Un labirinto temporale che esplode in immagini estremamente artificiali e manipolate, secondo lo stile del regista; mosaici giocosi che ci riportano a Méliès, dritti nella culla della Settima Arte. Alla fine il cinema chiude i battenti, così come cala il sipario sulla carriera (e la vita) dell'anziano maestro. Ed è veramente difficile per i cinefili trattenere la commozione.



Difficile mantenere la concentrazione dopo un film-titano come quello di Obayashi, ma il piccolo Edward, titolo filippino diretto da Thop Nazareno, rappresenta comunque una bella sorpresa. Il protagonista del titolo è un adolescente costretto a vivere in un ospedale per assistere il padre. Edward gioca con un coetaneo, scommette su chi vivrà e chi no, corre per i corridoi cercando refrigerio e dorme sotto le brande. Il quadro del sistema sanitario filippino è desolante: il regista si muove all'interno dell'ospedale con lunghe inquadrature virtuose e, quando la macchina si ferma, utilizza la profondità di campo per tenere sullo sfondo stanze sporche, dove i pazienti vengono rinfrescati agitando giornali e l'arrivo di un ventilatore è accolto come un miracolo. L'impronta da coming-of-age è qui declinata con toni che abbracciano la commedia nera, e il film stona proprio quando cade nella trappola del sentimentalismo e della love story. Ma proprio quando sembra farsi convenzionale, il film cambia nuovamente registro, e Nazareno è bravo a gestire gli aspetti più cupi senza cadere nella trappola della retorica e della consolazione.



Serata all'insegna del thriller politico, con la proiezione del coreano The Man Standing Next, ultima fatica del regista Woo Min-ho, preceduta dall'affine The President's Last Bang, film del 2005 diretto da Im Sang-soo. Entrambi i film raccontano di un evento sconvolgente della storia coreana: l'assassinio, il 26 ottobre del 1979, del presidente-dittatore Park Chung-hee da parte del proprio capo della sicurezza. Ma se il film di Im riusciva, grazie alla messa in scena satirica, a esporre le contraddizioni e le brutture del potere, The Man Standing Next si riduce a una convenzionale, sebbene tecnicamente impeccabile, spy story. Woo racconta gli intrighi di palazzo con tono shakespeariano, dipingendo i proprio protagonisti come figure larger than life (come già faceva con Song Kang-ho nel precedente The Drug King); ma fallisce nel lasciare fuori dall'intreccio la drammatica realtà coreana dell'epoca, che compare solo sotto forma di titoli di giornale e discussioni al tavolo presidenziale. Bravi gli interpreti, tra i quali spicca senza sorpresa Lee Byung-hun: ma il suo misurato e affascinante direttore Kim è comunque lontano dalla figura tesa e paranoica del reale assassino del presidente.

Diversi gli appuntamenti di oggi. Dalla Corea arrivano il dramma Kim Ji-young, Born 1982 e l'horror The Closet, mentre in area cinese si segnalano An Insignificant Affair e l'action di Hong Kong Line Walker 2: Invisible Spy. A completare il programma il giapponese Life Finds a Way, parte del ciclo dedicato a Hirobumi Watanabe.

Marco Lovisato 

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