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Fargo 4: una stagione all'italiana

“Questa è una storia vera”

L’incipit, ormai iconico, riporta sul piccolo schermo Fargo, la serie ispirata all’omonimo film dei fratelli Coen. Tornano le fredde atmosfere desolate del Minnesota, l’humour nero di personaggi al limite del grottesco e gli intrighi criminali efferati e assurdi che tanto hanno appassionato i fan del serial antologico di Noah Hawley. E, questa volta, la serie arriva definitivamente a trasformarsi in un gangster movie.

L’ambientazione si sposta all’inizio degli anni '50, a Kansas City. La storia principale si dipana attorno a una guerra tra due famiglie criminali per il controllo della città, quella italiana dei Fadda (di origine sarda) e quella afro-americana dei Cannon. Ancora una volta parallelamente agli eventi criminali, gravita “l’uomo comune”, personaggi civili che si rivelano più caratteristici dei criminali, come la giovane e geniale studentessa Ethelrida Smutney, studiosa di storia e della lingua francese e narratrice degli eventi, e Oraetta Mayflower, infermiera psicopatica pseudo-letterata che parla in terza persona e adora “alleviare” le sofferenze dei pazienti più gravi staccando la spina prima che la morte li reclami. Non mancano ovviamente anche le forze dell’ordine, questa volta rappresentate dal poliziotto corrotto Odis Weff, ossessivo compulsivo reduce di guerra afflitto da ingestibili tic, e dall’agente federale Dick Wickware, mormone convinto guidato da una controversa giustizia divina. Completano il quadro una singolare e variegata coppia di rapinatrici fuggiasche legate da un amore senza età, la più anziana Zelmare Roulette e la giovane e violenta Swanee Capps.

La più grande novità dell’attesissima quarta stagione di Fargo è la presenza nel cast di un folto gruppo di volti noti del cinema e della televisione italiana. Così, dopo Diavoli con Alessandro Borghi e The Old Guard con Luca Marinelli, ecco un altro tassello che porta i talenti recitativi italiani di fronte al grande pubblico internazionale grazie a una produzione in lingua inglese.

Questa volta, però, non si tratta di un unico attore, bensì di quasi metà del cast principale. Ecco quindi che spadroneggiano le star nostrane come Salvatore Esposito (Gomorra), Tommaso Ragno (Il Miracolo, 1992), Francesco Acquaroli (Suburra) e Gaetano Bruno (1994, Martin Eden), nelle vesti dei componenti della famiglia mafiosa Fadda.

L’ultima volta che sul piccolo schermo è stata portata una famiglia mafiosa italo-americana in un serial di spessore è stato nella quarta stagione di Peaky Blinders, dove, nonostante l’altissima qualità dello show, la credibilità dell’identità italiana dei personaggi è stata sacrificata da un casting di interpreti stranieri. Fargo invece compie una scelta intelligente quanto rischiosa, far interpretare personaggi italo-americani a veri attori italiani (con l’eccezione di Jason Schwartzman che comunque condivide le stesse origini). Il rischio consiste nell’usare volti meno noti al pubblico americano, ma il risultato è in definitiva più genuino ed efficace. Ragno è maestoso nel ruolo del boss Fadda, Acquaroli è tagliente in quello del consigliere, ed Esposito, nonostante un’interpretazione esagerata nella prima parte della stagione, ritorna alla follia omicida del suo Genny di Gomorra adattandola agli anni 50’ e aggiungendo un pizzico di ridicolaggine, come è tradizione per Fargo.
Menzione d’onore per il meno noto Gaetano Bruno che nei panni di Constant Calamita dà prova di grande fascino e presenza scenica.

Ma Fargo non si riconferma la serie più eclettica del panorama televisivo solo grazie a questa scelta di cast. La quarta stagione si rivela esplosiva per l’instancabile innovazione visiva e narrativa. Una stagione ancora più legata al tema dell’identità americana.

I protagonisti, infatti, sono i “reietti” degli anni '50, gli afroamericani e gli immigrati italiani. Per la prima volta in un prodotto simile si riflette su quanto i nostri antenati subissero atti di razzismo, portando così l’odierna e annosa questione a nuove e interessanti riflessioni. “The land of taking and killing” è come un personaggio definisce gli Stati Uniti.
Una vera e propria crime (hi)story americana, che racconta con sagacia le ombre della terra delle opportunità, governata dalla legge del più forte, dal denaro, dalla diffidenza per il prossimo e dal fato imprevedibile.

Le caratterizzazioni dei personaggi minuziose e romanzesche li definiscono nelle loro abitudini più assurde e apparentemente insignificanti, le loro perversioni, i loro tic. Tutto ciò rende i protagonisti vividi e iconici, parodie dei loro stessi stereotipi. Ritorna anche un accenno al sovrannaturale, inserito perfettamente in una dimensione veritiera quanto surreale, come fu per la seconda stagione, con la quale questa ha più punti in comune.

Lo stile registico e del montaggio è molto creativo ed estroso. Si gioca spesso con il “layout” dello schermo grazie a un uso dello split-screen mai così visivamente interessante. Se la stagione è leggermente troppo lunga (11 episodi), l’episodio 9 è un vero capolavoro di visionarietà, capace di regalare momenti di alto cinema. Girato in bianco e nero, ha la potenza di un film a sé stante, nonostante si inserisca perfettamente nella continuità della stagione. Questa puntata colpisce per l’evidente derivazione letteraria, accompagnata da una fulgida e allo stesso tempo polverosa fotografia.

Le influenze e le citazioni (anche interne) si sprecano: dal western al gangster, dalla letteratura romanzesca di fine '800 ai racconti bellici.

Forse questa stagione è di poco inferiore alle precedenti tre, ma non fallisce minimamente nell’imporsi come show ad alto budget anti-commerciale, controtendenza e sempre ricco di innovazione proteiforme. In più con Noah Hawley trionfa anche il cinema italiano in un’operazione che per noi non ha precedenti.

Cesare Bisantis

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