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Netflix: un'estate italiana in 10 film da non perdere
Contro il logorio della calura estiva (ma forse anche della vita moderna, chissà) ecco una playlist da consultare per una serata tra amici o per un semplice momento di relax in vacanza. Si tratta di dieci film italiani molto diversi tra loro, disponibili nel catalogo Netflix, con cui abbiamo pensato di creare una sorta di rassegna che celebri il cinema made in Italy di ieri e di oggi.

La dolce vita (Federico Fellini, 1960)


All'alba degli anni '60, una scossa tellurica senza precedenti nella storia del costume italiano, sia sociale che cinematografico. Autentico film-simbolo di un'intera epoca, chiacchieratissimo già a suo tempo, fondamentale per comprendere lo slancio definitivo dell'Italia del boom ormai proiettata verso la perdita dell'innocenza. Roma, nel capolavoro felliniano diventato un proverbiale marchio internazionale, è un fondale solo apparentemente in movimento e in realtà smorto e inerte, che culla la spossatezza esistenziale dei personaggi senza opporre resistenza, senza imporre la sua presenza. Proprio per questa ragione, per lo spettatore è un gesto ancora oggi di impagabile bellezza e sommo appagamento abbandonarsi a La dolce vita come a un'esperienza di visione assoluta, summa dello spirito del suo tempo ma anche contenitore di un campionario umano doloroso e contemporaneo, nel quale la fama e l'apparenza sono analgesici passeggeri per uno strazio più grande e non momentaneo.

Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto (Lina Wertmüller, 1974)


Tra avventura, sentimento e satira politica, Lina Wertmüller dirige e sceneggia una commedia caustica e grottesca, perseguendo con coerenza la sua idea di cinema sociale. Dopo l'asse Catania-Torino di Mimì metallurgico ferito nell'onore (1972), la lotta di classe trova compimento nell'azzurro mare sardo: l'isola deserta dove i due protagonisti riparano si fa metafora geografica di un mondo primordiale, libero e scevro dalle sovrastrutture sociali, dove l'unica realizzazione possibile diventa l'ostinato istinto di sopravvivenza. «Ve la siete inventati voi borghesi, la volgarità!» grida Carunchio, scagliandosi contro la ricca industriale: la società moderna, vista come ingranaggio deformante che crea squilibri tra l'onnipotenza borghese e la disperazione proletaria, diventa quindi il mezzo primario per denunciare le imprescindibili contraddizioni nazionali (esemplificate nell'amaro finale). Giannini e Melato da applausi.

Un sacco bello (Carlo Verdone, 1980)


Esordio cinematografico per Carlo Verdone prodotto da Sergio Leone e sceneggiato dal regista insieme a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. La esile struttura drammaturgica, composta da tre episodi paralleli, è funzionale per esaltare le doti istrioniche dell'attore e regista impegnato a interpretare con mirabile talento ben sei personaggi (i tre protagonisti e tre figure secondarie), incarnando tic, idiosincrasie, meschinità e debolezze di uomini comuni, mediocri alla ricerca di possibilità di riscatto puntualmente deluse. Al di là delle esilaranti macchiette è interessante, seppure acerbo e discontinuo, lo sguardo malinconico e al contempo sagace con cui Verdone descrive una società italiana ferita e segnata dagli anni di piombo che si approccia al nuovo decennio con una speranza di normalità, lasciando da parte delusioni e dispiaceri. Guardando alla tradizione della commedia all'italiana, quindi, Verdone dà vita a un racconto divertente che analizza la contemporaneità con piglio satirico e affettuoso, mai cinico, capace di suscitare risate liberatorie e amare.

Ferie d'agosto (Paolo Virzì, 1996)


Premiato con il David di Donatello per miglior film, Ferie d'agosto è l'opera seconda del livornese Paolo Virzì, che sceglie un classico momento di aggregazione italiana, le vacanze al mare, per fare un bozzetto "sociocinematografico" delle famiglie borghesi del Belpaese. È chiara quasi da subito la motrice del racconto: lo scontro dei valori che dominano i modi di vivere delle due famiglie di estrazioni politiche diverse. Virzì, anche penna del film, si impegna molto a evidenziare caratteristiche, pregi e difetti dell'una e dell'altra sponda familiare, in un gioco di "bilanciamento" che a lungo andare rischia però di soffocare la parte più interessante: il racconto delle infelicità dei protagonisti. In ogni caso, non mancano battute divertenti e riflessioni interessanti sostenute da una brezza estiva decisamente gradevole.

Tre uomini e una gamba (Massimo Venier, Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, 1997)


Esordio cinematografico per il trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, già conosciuto dal grande pubblico per la loro partecipazione fissa al programma Mai dire gol, Tre uomini e una gamba costruisce una drammaturgia piuttosto solida intorno ad alcuni sketch celebri e tormentoni già proposti in teatro e televisione. Una commedia leggera e garbata, che ha il suo punto di maggior debolezza nel risvolto romantico-esistenzialista che unisce Giacomo a Chiara (Marina Massironi, un tempo legata a Poretti anche nella vita). Road movie all'italiana, fatto di equivoci, disastri e situazioni divertenti, gioca spesso sui contrasti esasperati tra le tre personalità: il siculo chiassoso Aldo, il pignolo Giovanni e il radical chic pedante Giacomo. Gustosissimi i riferimenti cinefili (uno dei segmenti più divertenti è la satira del Neorealismo), così come lo sguardo candido verso il gusto semplicemente slapstick: un perfetto prodotto per famiglie che in effetti ebbe un enorme riscontro al botteghino, lanciando definitivamente la carriera dei tre comici.

La mafia uccide solo d'estate (Pif, 2013)


L'esordio di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) è un lungometraggio sorprendente, sui cui in pochi avrebbero scommesso. Il noto conduttore televisivo, figlio del regista Maurizio Diliberto, riesce a mantenere un invidiabile equilibrio tra grottesco e cronaca nera, ironia e tragedia. Diviso nettamente in due parti (l'infanzia e l'età adulta del personaggio), il film è un intenso racconto di formazione, ambientato in un mondo e in un periodo storico nel quale i fatti di sangue legati a Cosa nostra erano all'ordine del giorno. Scandito da tempi perfetti nelle prime battute, La mafia uccide solo d'estate ha un piccolo calo verso la conclusione, che non inficia però il buon risultato complessivo. Il regista riesce a parlare della mafia in maniera sarcastica, dolorosa e toccante al tempo stesso, aiutato anche da una sceneggiatura efficace (scritta dallo stesso Pif, insieme a Marco Martani e Michele Astori) e da un ottimo lavoro di montaggio (Cristiano Travaglioli).

Chiamami col tuo nome (Luca Guadagnino, 2017)


Ispirato all'omonimo romanzo (2007) di André Aciman, il quinto lungometraggio di finzione di Luca Guadagnino è un lineare racconto di formazione che scivola in maniera pudica nell'educazione sessuale del giovane protagonista. Un film libero e spontaneo, che trova nella placida calma dell'assolato paesaggio agreste lo scenario ideale per affrontare una storia di fertile semplicità segnata da un significativo gusto per il dettaglio. Questo delizioso coming of age, che può ricordare il cinema di Eric Rohmer, è valorizzato dalla scelta di ambientare la vicenda in un preciso contesto storico-culturale, con la politica che appare dagli schermi della TV, da una semplice immagine colta con naturalezza (quella di Mussolini) o da pittoreschi discorsi a tavola. L'amore diventa espressione di uno stato d'animo che vuole e deve rifiutare il pregiudizio e la repressione dei sentimenti, come se il "fantasma della libertà", suggerito anche dal riferimento al film di Buñuel, si dovesse fare largo dall'effimera spensieratezza degli anni '80, costantemente velata di malinconia. La bellezza del corpo, incarnata dalla figura di Armie Hammer, si specchia nella bellezza dell'Arte (le sculture, i reperti archeologici) e in quella della musica, in un'opera che è già un classico contemporaneo.

La paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019)


Basato sull'omonimo romanzo di Roberto Saviano (il quale ha collaborato alla sceneggiatura), il film di Giovannesi si discosta in parte dall'immaginario di Gomorra e dei tanti prodotti simili apparsi anche in TV mostrandosi come un film più “luminoso” nelle scelte visive (notevole la fotografia di Daniele Ciprì) ma altrettanto cupo nei contenuti, inerenti al tema della perdita dell’innocenza e della ricerca del successo a tutti i costi. Quella sullo schermo è una realtà a metà tra il gioco e la violenza brutale dei fatti raccontati, attraverso una curiosa commistione che rende perfettamente il senso di cosa voglia dire entrare nell’universo camorristico a quell’età. Il regista guarda a Germania anno zero (1948) di Rossellini, per sua stessa dichiarazione, ma anche ai film americani sugli adolescenti degli anni '80, come Stand By Me – Ricordo di un’estate (1986) per mostrare l’affiatamento dei giovani personaggi, riuscendo a cogliere efficacemente la loro emotività e il perché delle scelte che compiono. Miglior sceneggiatura al Festival di Berlino.

L'incredibile storia dell'Isola delle Rose (Sydney Sibilia, 2020)


Dopo la trilogia di Smetto quando voglio, Sydney Sibilia punta a un film ancor più ambizioso, prodotto da Matteo Rovere e distribuito direttamente su Netflix. L’ambizione parte dalla bellezza del fatto di cronaca che racconta (la storia, vera ma incredibile, dell’Isola delle Rose, piattaforma artificiale costruita al largo delle coste di Rimini dall’ingegnere Giorgio Rosa, il quale nel maggio del 1968 ne autoproclamò lo status di Stato Indipendente), ma anche dal tentativo riuscito di far diventare quella vicenda un tassello per rappresentare ciò che è stato il ’68, con i suoi sogni e le sue utopie. Grazie anche a un’ottima colonna sonora, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è godibile e appassionante, tanto che – anche se si sapesse già la conclusione di com’è andata realmente – viene comunque da fare il tifo per il sogno di Rosa e dei suoi compagni d’avventura, per la sua sfida allo Stato e per quel desiderio di libertà che nasconde, sotto sotto, la necessità di darsi una possibilità di riscatto e di mostrare ciò di cui si è capaci alla persona amata. Qualcosa scricchiola a livello di ritmo nella parte centrale, ma la cornice funziona a meraviglia e il cast è in buonissima forma, a partire dal protagonista Elio Germano.

È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021)


Paolo Sorrentino lascia qui da parte il suo barocchismo stilistico per dare vita a un'opera dalla messinscena quasi essenziale, tanto impeccabile nei tempi di montaggio quanto capace di mostrare sempre un enorme controllo della macchina da presa, così come dei tempi narrativi. Divertente e commovente, tragico e grottesco, malinconico e farsesco, È stata la mano di Dio è un viaggio pieno di contrasti, che parte dal misticismo per arrivare alla commedia dell’arte: se la realtà è deludente, l’immaginazione è l’unica carta che può salvarci o, quantomeno per Fabietto, quella diventa l’unica via d’uscita dalla catastrofe totale. Non si tratta di un’autobiografia convenzionale, tutt’altro: il film è infatti un flusso di coscienza all’interno della memoria, tra luci e ombre, personaggi incontrati e parole capaci di rimanere impresse in modo indelebile per tutta la vita. Maradona è rappresentato come un Dio salvifico, capace di reggere sulle proprie spalle il peso della vita di Fabietto e di un’intera città, ma una volta che si diventa grandi si è soli e neanche i nostri idoli possono fare più nulla.

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