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Il grande cinema del Festival di Cannes su Prime Video, da Andrea Arnold a Jules Dassin
Dal tapis rouge al salotto di casa. Si potrebbe riassumere così il senso di questo articolo, tanto per entrare definitivamente in clima croisette a un mese dall'edizione numero 75 del Festival di Cannes (17-28 maggio). La Côte d'Azur, il sole, le palme e... il grande cinema: è questo il mix senza eguali che incanta cinefili e appassionati di tutto il mondo, desiderosi, almeno una volta nella vita, di vivere in prima persona la rassegna cinematografica più glamour ed elettrizzante che esista.

Nell'attesa che il sogno si realizzi, su Prime Video si può comunque assaporare il clima della montée des marches (ri)guardando in totale relax alcuni meravigliosi film che hanno segnato la storia del festival. Ecco dieci titoli che spaziano tra generi e sguardi autoriali molto diversi tra loro, per una rassegna casalinga très chic.

10. American Honey (Andrea Arnold, 2016)

 
«We found love in a hopeless place». Con uno stile frenetico e graffiante, pronto ad adattarsi alla vita randagia dei personaggi al centro dell'intreccio narrativo, Andrea Arnold firma un'opera potente, anche se vittima di alcuni passaggi altalenanti e di uno squilibrio che si rispecchia però perfettamente nella generosità del disegno d’insieme, rutilante e sovrabbondante, ricchissimo di vitalità adolescenziale e pulsioni scomposte. Una riflessione spietata e schietta sull'America di oggi, le cui contraddizioni si specchiano in un pugno di personaggi "allo sbando", incentrata sulla circolarità e sulle allitterazioni proprie di un archetipico viaggio on the road, su uno schizofrenico girovagare come unico moto possibile di una gioventù al collasso. La tendenza a rappresentare un quadro affettuosamente disperato, tra abuso di droghe, successo facile, sesso e brama di denaro, porta a una saturazione che rischia di diventare mera ripetizione, anche a causa di una durata monstre vicina alle tre ore. Ma la messinscena è fresca e pulsante al punto giusto, la scrittura dei personaggi è incisiva e gli attori si dimostrano perfettamente in parte. Ne viene fuori un’odissea suburbana fatta di macerie e (ultimi) fuochi fatui, giovanile, fluida e trascinante. Notevolissima la colonna sonora, che asseconda a meraviglia gli umori del film e i suoi battiti profondi, muovendosi in scioltezza dalla hit planetaria Take your time di Sam Hunt ai più sommersi Mazzy Star e Bonnie “Prince” Billy, passando per la dolente Dream Baby Dream di Bruce Springsteen e soprattutto per l’esplosiva e romantica We Found Love di Rihanna, insostituibile inno generazionale al trovare l’amore in un luogo senza speranza, che fa da sottofondo al primo incontro tra Star e Jake in un supermercato (ma degna di nota è anche la melliflua title track, omonima del film ma precedente e risalente al 2010, firmata Lady Antebellum). Premio della giuria al Festival di Cannes 2016.

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)


New York, 1984. Il giornalista Arthur Stuart (Christian Bale) indaga sulla misteriosa scomparsa dalla scena musicale del cantante inglese Brian Slade (Jonathan Rhys-Meyers), avvenuta dieci anni prima. Un flashback esistenziale che riporta Arthur alla propria giovinezza, trascorsa a Londra nel pieno dello sfavillante movimento glam. Ricco di invenzioni stilistiche e forte di un linguaggio cinematografico molto personale, Velvet Goldmine non potrebbe raffigurare meglio l'estetica barocca glam rock (lustrini, paillettes e ambiguità), della quale rappresenta un curioso manifesto cinematografico. Non è esente da difetti, in primo luogo una certa frammentarietà e disomogeneità nella sceneggiatura (firmata dal regista Todd Haynes) e qualche elemento superfluo (i riferimenti a Oscar Wilde e la rivelazione finale, poco incisiva e risolutiva), ma il fascino non gli manca e la caratterizzazione dei personaggi principali è di pregevole fattura: Brian Slade è chiaramente ispirato al David Bowie del periodo Ziggy Stardust/Aladdin Sane e la messa in scena della morte sul palco del primo richiama il suicidio artistico del Bowie/Ziggy (finalizzato all'inizio di una nuova fase musicale, tramite una liberazione "traumatica"). Ewan McGregor è molto convincente nella parte di Curt Wild, emulo di Iggy Pop, del quale riprende l'attitudine selvaggia on stage, ma è Christian Bale a impressionare per intensità espressiva. Abiti e costumi sgargianti, ambiguità e orgoglio omosessuale, espliciti ma non gratuiti. Il tutto al ritmo di canzoni di Lou Reed, Roxy Music, Brian Eno e The Stooges, sia in versione originale che reinterpretate da McGregor e Rhys-Meyers. Cameo dei Placebo, che eseguono 20th Century Boy dei T. Rex.

8. Mona Lisa (Neil Jordan, 1986)


George (Bob Hoskins), criminale di mezza tacca appena uscito di prigione, trova lavoro come autista personale di una bellissima prostituta di alto bordo (Cathy Tyson). Attraversando il peggior sottobosco londinese di criminalità, sfruttamento e malaffare, i due si apriranno e inizieranno a conoscersi meglio. Neil Jordan firma una delle parabole più intime e significative degli anni Ottanta: nonostante qualche ingenuità di fondo, riesce a conciliare in maniera straordinariamente efficace cinismo e dolcezza, crudeltà e sentimento. Dramma dei sentimnenti dalle tinte noir, Mona Lisa racconta uno squallore che diventa poesia umana (e cinematografica) e si offre come dispositivo imprescindibile per raffigurare un contesto sociale (sono gli anni di Margareth Thatcher) complicato e culturalmente impegnativo. Perfetto il silenzioso rapporto tra i protagonisti, in cui si inserisce il personaggio di Michael Caine, kingpin emblematico di una criminalità spietata ed egualmente eccentrica. Eccellente Bob Hoskins (nominato all'Oscar): non idoneo dal punto di vista fisico, imperfetto, nevrotico, vibrante, offre una prova da manuale, racchiudendo dentro sé tutti gli amori non corrisposti e tutte le consapevolezze di un fallimento che resta arginato nei bordi della dignità. Fotografia d'atmosfera di Roger Pratt. Presentato in concorso al Festival di Cannes, dove Hoskins vinse il Prix d'interprétation masculine.

7. Casa Howard (James Ivory, 1992)


La ricca e benevola Ruth (Vanessa Redgrave), sposata allo sgradevole Henry (Anthony Hopkins), lascia in eredità l'avita casa Howard, dimora di campagna, all'amica borghese Margaret (Emma Thompson). Henry si oppone, ma alla morte di Ruth sposa proprio Margaret; intanto la sorella di quest'ultima, Helen (Helena Bonham Carter), viene ingravidata dal disoccupato Leonard (Samuel West), già sposato a un'altra donna (Nicola Duffett). Il cinema di James Ivory all'ennesima potenza: finanziato dal compagno Ismail Merchant e dalla loro “Merchant Ivory Productions”, e sceneggiato da Ruth Prawer Jhabvala, Casa Howard si ispira all'omonimo capolavoro letterario del 1910 di Edward Morgan Foster. Tra i risultati più mirabili del grande regista di Berkeley: in quest'epopea contenuta, dai toni quasi intimisti, si cela l'orizzonte mai troppo esplorato del cinema del suo autore, spesso bloccato da un flebile accademismo e da dinamiche compilative e patinate. Qui l'armonia regna sovrana, tra puntualità di una messa in scena al limite della perfezione e capacità di dirigere al meglio un cast in grande forma. Un anno prima del suo film più importante, Quel che resta del giorno, Ivory consegna un'opera intensa e stratificata, una riflessione profonda e piacevolmente old-fashioned sui mutamenti sociali e sentimentali di tre famiglie inglesi nei primi anni del Novecento. Tre Oscar: Emma Thompson (miglior attrice), sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala e le scenografie di Ian Whittaker. Alla 45ª edizione del Festival di Cannes, si sarebbe dovuto contendere la Palma d'oro con I protagonisti di Robert Altman, ma la giuria presieduta dall'attore francese Gérard Depardieu assegnò sciaguratamente il massimo riconoscimento a Con le migliori intenzioni di Bille August.

6. Segreti e bugie (Mike Leigh, 1996)


Nella periferia di Londra, Cynthia (Brenda Blethyn) e Maurice (Timothy Spall) sono due fratelli che hanno smesso di parlarsi da tempo. Mentre Maurice tenta di riconciliarsi con la sorella, Cynthia viene contattata da una ragazza di colore, Hortense (Marianne Jean-Baptiste), che dice di essere sua figlia. Il punto più alto del cinema di Mike Leigh è un film commovente e destabilizzante, che indigna e scalda il cuore, gelidissimo quando occorre esserlo ma capace, allo stesso tempo, di regalare fiammate d'umanità impossibili da dimenticare. Il ritratto della provincia inglese, spesso impietoso sotto il piano morale e antropologico, incontra una riflessione profondissima sul senso dell'identità e dell'appartenenza, mentre la densità psicologica dei personaggi si sposa incredibilmente al coinvolgimento emotivo. Il regista dimostra una considerevole attenzione alle sfumature dell'animo umano, una dedizione che però non gli impedisce di affilare a dovere la lama della denuncia sociale, di scoperchiare impietosamente la falsità conformistica, la grettezza culturale e l'arretratezza di pensiero di una comunità. Apoteosi dello stile di Mike Leigh, che gira quasi senza sceneggiatura, rinchiudendo gli attori nello stesso luogo per un bel po' di tempo, ed estraendo da loro la massima naturalezza possibile. Un metodo che ha effetti tangibili, in questo caso tutti visibili, specie nell'incredibile scena finale, recitata a livelli incredibili. Sequenza chiave: il primo incontro tra Cynthia e Hortense in un bar di Londra, con la macchina da presa che regala allo spettatore un lunghissimo piano-sequenza con inquadratura fissa e pieno di dolore, in cui gli sguardi bassi e distanti, attenti a non incrociarsi, materializzano fisicamente il dramma di anni e anni non trascorsi insieme. Palma d'oro a Cannes nel 1996 e Prix d'interprétation féminine a Brenda Blethyn.

5. Two Lovers (James Gray, 2008)


New York. Leonard Kraditor (Joaquin Phoenix), trova il coraggio di uscire dal silenzioso dolore causato da una passata relazione, inseguendo due donne diverse: Sandra (Vinessa Shaw), che piace ai suoi genitori, e Michelle (Gwyneth Paltrow), la sfuggente e volubile vicina di casa. Con un atto di coraggio impressionante per il cinema hollywoodiano contemporaneo, James Gray si allontana per la prima volta dalle atmosfere noir a lui congeniali per concentrarsi su un mélo anomalo, diventato uno dei più significativi e affascinanti esempi di dramma sentimentale d'inizio nuovo millennio. Il regista americano non solo vince la scommessa, ma con Two Lovers segna uno degli approdi più alti e sicuri della sua carriera, un'opera destinata a restare nel tempo in virtù della sua preziosa unicità. Attraverso tre personaggi, Gray racconta ciò che sfugge a qualsiasi classificazione, ovvero le sottili oscillazioni del sentimento umano, con tutto il loro carico di imprevedibilità e dolorosità. Caricando New York dello spleen del protagonista (indimenticabile la sequenza nel ristorante che lo inquadra da solo, sullo sfondo, tra le note di Lujon) e muovendosi in perfetto equilibrio tra territori da cinema indipendente e l'onda emotiva da produzioni mainstream, la storia di Leonard si dipana tra piccoli eventi che il regista riempie di una profondità nuova e insieme intimamente inserita nel tracciato della più pura tradizione a stelle e strisce degli anni Sessanta. Tra Cassavetes e Carver, e con un occhio al languore dell'Antonioni più indimenticabile, Leonard si muove realisticamente tra due sentimenti coesistenti, tra due pulsioni complementari. L'amore per le donne che lo circondano (alle amanti si aggiunge la madre interpretata da un'incisiva Isabella Rossellini), regolato da dinamiche contraddittorie, non concede la scelta, ma sceglie, implacabilmente, per lui. Un'opera straordinariamente ellittica, controllatissima da punto di vista formale che rifiuta ogni approccio convenzionale a un tema (e a una condizione esistenziale) di rara intensità. In corcorso al 61º Festival di Cannes, nell'anno di Gomorra e Il divo.

4. Madre (Bong Joon-ho, 2009)


Do-joon (Won Bin) è un ragazzo disturbato e rifiutato da tutti a causa dei suoi evidenti problemi mentali. Quando verrà accusato dell'omicidio di una ragazza, la madre (Kim Hye-ja), poco convinta, comincerà a indagare in prima persona. Uno straziante, commosso e ambiguo ritratto di madre firmato Bong Joon-ho, che riflette sui condizionamenti dovuti ai legami affettivi, ma anche sulle possibilità infinite e sui gesti impensabili che un amore spropositato come quello materno può generare. Nel film, degno di una tragedia euripidea, albergano vendetta, sangue, esplosioni di violenza, bruciature e lampi improvvisi, che vanno a contrappuntare una narrazione spesso piana e dimessa, ma anche momenti all'insegna della pura costruzione poetica, come l'inizio e la parte finale, che si rispecchiano l'uno nell'altro generando una vera e propria struttura ad anello. La ricostruzione di un omicidio, in questo caso come nel precedente, altrettanto riuscito Memories of Murder, fa da cassa di risonanza per parlare di temi più grandi e più ingombranti rispetto al semplice pretesto di partenza, dall'amore filiale al confine etico tra giusto e sbagliato passando per la controversa ricezione della diversità nel mondo di oggi. Quello del regista coreano è anche, in misura non secondaria, un film sulla sofferenza dello sguardo, in cui l'atto di spiare bilancia sempre al suo interno, in egual misura, proibizione, sottomissione e dolore. Presentato nella sezione Un certain regard della 62ª edizione del Festival di Cannes.

3. Niente da nascondere (Michael Haneke, 2005)


Nella Francia contemporanea, Georges Laurent (Daniel Auteil) conduce una popolare e seguita trasmissione televisiva sui libri. Un giorno qualunque comincia a ricevere delle videocassette che riproducono la facciata della sua abitazione e i movimenti suoi e della sua famiglia. Sua moglie Anne (Juliette Binoche) condivide il disagio, mentre i rapporti con il figlio Pierrot (Lester Makedonsky) si fanno sempre più tesi. Dopo avere indagato il male ontologico che invade l'Europa contemporanea con Il tempo dei lupi (2003), in Niente da nascondere Michael Haneke analizza il senso di colpa opprimente che aleggia sugli europei. Il film, vincitore del premio per la Miglior regia al Festival di Cannes 2005, descrive come un ambiente retto su norme sociali condivise possa venire improvvisamente sconvolto da un malessere tanto sgradevole quanto inaspettato, proveniente da un passato dimenticato o ignorato. Come indica il titolo italiano (anche se è molto più calzante l'originale Caché), non c'è niente da nascondere: viene mostrato tutto ciò che c'è da mostrare, non dando risposte ma ponendo solo domande. L'intento dichiarato del regista è infatti quello di annullare la barriera tra conoscibile e inconoscibile, raccontando qualcosa di apparentemente nascosto che si annida nella banalità del quotidiano, e che affonda le sue radici nell'innocenza e nella violenza dell'infanzia, trasmettendo allo spettatore quel senso d'angoscia tipico del perturbante freudiano. Il leitmotiv di Niente da nascondere vive continuamente sull'ambiguità dell'immagine (è quella del regista o è quella del voyeur nel film?), in un'alternanza di campi medi e lunghi, immobili nella loro asetticità, che si sovrappongono ai primi piani svuotati di ogni emotività. La freddezza della rappresentazione, come è tipico dello stile del cineasta austriaco, è perfettamente congeniale alla volontà di destabilizzare e interrogare lo spettatore, che dopo la visione apparirà smarrito e insicuro su come interpretare quanto visto. È il film cinematograficamente più forte di un regista che aveva già indagato il significato e l'impatto delle immagini in movimento nella società contemporanea con Benny's Video (1992) e Funny Games (1997), ed è anche una delle esperienze di visione tra le più disturbanti (seppur non ci sia traccia di violenza fisica) della storia del cinema.

2. Dead Man (Jim Jarmusch, 1995)


William Blake (Johnny Depp) è un pavido contabile che si inguaia uccidendo un uomo per legittima difesa. Seguirà una fuga contraddistinta da un senso di morte incombente, e ad assistere William provvederà solo un pellerossa di nome Nessuno (Gary Farmer), persuaso, vista l'omonimia, che il protagonista sia davvero il celeberrimo poeta inglese da lui tanto amato. Uno dei film più impressionanti di Jim Jarmusch, e forse il vero spartiacque della sua carriera: Dead Man è un western dalle avvolgenti spire mortifere, a metà tra il loop e il trip, tra l'inquietudine paesaggistica e l'incursione acida nel genere cinematografico più archetipico della cultura americana. La furia visionaria del regista non è però in stato di perenne esaltazione, come qualcuno potrebbe immaginare: al contrario sposa una remissività di incredibile forza estetica e concettuale, che trascina lo spettatore dentro quello che sembra a tutti gli effetti un incubo senza ritorno. La lentezza e la contemplazione, in questo caso, seguono un tracciato idealista e formale, come spesso accade nel cinema di Jarmusch. Ma Dead Man va anche oltre: è un film, soprattutto se rapportato al suo tempo (gli anni Novanta), sul dissolversi della classicità e del mito della frontiera, che scompaiono per lasciar posto alle visioni turbate e metafisiche del postmodernismo. Si tratta di un viaggio verso la morte – con Nessuno che funge da novello Virgilio – ma anche di un percorso di formazione spirituale e di un grande omaggio alla cultura dei nativi americani. Musica di Neil Young, di spettrale bellezza e perfettamente calzante che, oltre a dettare l'atmosfera, non esita, quando le circostanze lo richiedono, a diventare un personaggio aggiunto. In concorso al 48º Festival di Cannes.

1. Rififi (Jules Dassin, 1955)


Scontati cinque anni di carcere dopo essere stato tradito dalla pupa Mado (Marie Sabouret), il disilluso Tony "il laureato" (Jean Servais) rientra nel giro del crimine per tornare ad assaporare la rispettabilità di cui godeva in passato. Pianifica così un ingegnoso "colpo grosso" per svaligiare il caveau di una gioielleria insieme a Jo "lo svedese" (Carl Möhner), Mario (Robert Manuel) e Cesare (Perlo Vita). La rapina riesce ma, al momento della spartizione del bottino, le cose si complicano irreparabilmente. Uno dei più grandi "neri" degli anni '50, che aprì la strada alla corrente del polar francese (poliziesco contaminato da atmosfere noir). Pur partendo dal clima di sommesso fatalismo dei classici modelli a stelle e strisce, l'americano Jules Dassin, emigrato in Francia dopo essere stato vittima delle persecuzioni maccartiste, trova nello spigoloso ed essenziale realismo delle sue grandi pellicole precedenti (La città nuda del 1948, in particolare) terreno fertile per realizzare una superba opera che guarda con tono malinconico al dramma esistenziale, al tempo che scorre, all'amicizia virile, ai codici non scritti della malavita, alle delusioni d'amore e, forse, alla fine di un'epoca. Modello imprescindibile per tutti gli heist movie a venire, Rififi racchiude in sé tutti gli ingredienti tipici del genere a cui appartiene, segnando un punto fermo nella storia del cinema con la lunghissima sequenza (venticinque minuti) priva di dialoghi e musica che descrive l'esecuzione della rapina. Una lezione di tecnica cinematografica che, pur rifiutando l'azione in senso stretto, costruisce una morsa tensiva costante. Molto esplicito per l'epoca in termini di violenza e allusioni sessuali. Personaggi memorabili, eccellente scrittura, superbi contributi tecnici (fotografia di Philippe Agostini, musiche di Georges Auric, scene di Alexandre Trauner). Tratto dal romanzo omonimo (1953) di Auguste Le Breton. Premio per la miglior regia all'8º Festival di Cannes. François Truffaut lo considerava il miglior noir mai girato: vorrà pur dire qualcosa, no?
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