Grace Kelly, Kim Novak e Tippi Hedren – Le donne da brivido di Alfred Hitchcock
01/04/2022
Alfred Hitchcock, ovvero il più grande di tutti. Maestro del brivido ma, prima ancora, maestro nel rendere unico e irripetibile anche il particolare apparentemente più trascurabile presente in una sua pellicole. Tutto (ma proprio tutto, tutto, tutto) nel suo cinema ha una precisa ragione d'essere, ogni scelta stilistica, ogni singolo movimento di macchina, ogni dettaglio vive in funzione di un'idea superiore di maniacale ricerca della perfezione.
Uno degli aspetti meno celebrati del cinema di Hitch riguarda la capacità del grande regista britannico di dirigere gli attori. In ogni suo film, si ha sempre la sensazione che gli interpreti non possano compiere azioni o movimenti differenti da quelli che vediamo loro compiere in quel preciso momento. Tutto è perfetto, non un dialogo o un gesto di troppo. Ma la cosa davvero straordinaria risiede nel fatto che questo livello di messa in scena, fuori dal comune, non assume mai i tratti di una rigida e meccanica ripetizione. Grazie a un controllo totale della messa in scena, che passa ad esempio da vertiginosi angoli di ripresa, da incredibili soluzioni di montaggio o da particolari scelte nell'uso espressivo del colore, un film di Alfred Hitchcock lo si riconosce anche solo da una manciata di fotogrammi. E questa unicità si specchia alla perfezione nei volti degli attori e, soprattutto, delle attrici con cui sir Hitchcock ha lavorato, in particolare nel periodo d'oro che abbraccia gli anni '50 e '60.
Impossibile non partire da Grace Kelly, colei che più di chiunque altra incarna il sogno che diventa realtà. Una vita, la sua, che sembra uscire da una sceneggiatura cinematografica: un'attrice luminosa e affascinante come poche altre che si ritita dalle scene all'apice della popolarità e diventa principessa. E, come da copione, non si lascia mancare nemmeno il tragico finale, consumatosi sulle colline del Principato di Monaco il 14 settembre 1982, quando a causa di un incidente stradale, su cui non è mai stata fatta piena chiarezza, perde la vita a soli 52 anni.
La prima delle tre collaborazioni tra Hitchcock e Grace Kelly arriva nel 1954 con Il delitto perfetto, mystery da manuale tratto dall'omonima pièce di Frederick Knott. Tony (Ray Milland) e Margot (Grace Kelly) sono una coppia sposata e… infelice: lui vive alla spalle della moglie, lei è innamorata di un altro uomo. Il divorzio sarebbe la rovina per Tony, che pensa così di ucciderla con un piano apparentemente perfetto, affidandosi all'ex compagno di studi Lesgate (Anthony Dawson). Un'opera in cui la matrice teatrale dà la possibilità al regista di sperimentare una tensione di carattere prevalentemente psicologico, ambientando quasi la totalità dell'azione in interni e creando una suspense tesissima che trova linfa vitale nella valorizzazione dei dettagli. Grace Kelly si impone fin da subito come perfetta incarnazione dell'ideale femminile hitchockiano: una donna bionda bellissima all'apparenza algida, ma mossa da una insospettabile passionalità e da uno spiccato spirito d'iniziativa.
Sempre dello stesso anno è il capolavoro La finestra sul cortile, una delle opere più importanti di tutta la carriera di Alfred Hitchcock. Un fotoreporter professionista, Jeff (James Stewart), è immobilizzato sulla sedia a rotelle dopo una frattura alla gamba sinistra. Il suo unico passatempo è spiare il vicinato dalla finestra di casa sua: in particolare la sua attenzione si concentra su un uomo misterioso che Jeff crede essere un uxoricida... Un monumentale saggio sulla tensione al cinema e sull'atto della visione, che ha segnato in maniera indelebile la storia del cinema, in cui Hitchcock mette a nudo le ossessioni voyeuristiche e la morbosità dello spettatore. In questo quadro di perfezione totale, come dimenticare la meravigliosa Lisa interpretata da Grace Kelly? Sofisticata ragazza dell'alta società e indossatrice non professionista, Lisa sappiamo essere la fidanzata del protagonista: tutta la prima parte del film, grazie a un colpo di genio del Maestro Hitch e dello sceneggiatore John Michael Hayes (che si è basato sull'omonimo racconto giallo di Cornell Woolrich), diventa una pungente analisi del rapporto di coppia, resa ancora più acuta dalla claustrofobica ambientazione domestica. Lisa non è una presenza "accessoria", ma racchiude in sé tutto l'estro creativo e lo spirito avventuroso di una donna moderna in anticipo sui tempi.
E poi, nel 1955, ecco arrivare Caccia al ladro. L'americano John Robie, detto “il gatto” (Cary Grant), è diventato una celebrità in Francia per il suo grande talento come ladro di gioielli. Ritiratosi dall'attività, si gode la vita in riviera fino a quando viene compiuto un furto che ricorda il suo stile: la polizia sospetta immediatamente di lui. Anche grazie all'aiuto della bella Frances Stevens (Grace Kelly), Robie dovrà dimostrare la propria innocenza. Tratta da un romanzo di David Dodge, una pellicola brillante, un divertissement sofisticato caratterizzato da un ottimo ritmo e da una grande eleganza formale. Una commedia dai risvolti gialli e ricca di ironia, in cui prima ancora dell'intreccio è centrale la costruzione di una tensione narrativa sempre impeccabile corredata da una regia attenta a ogni dettaglio, capace di creare con pochi elementi a disposizione sequenze a dir poco memorabili come la celebre scena del bacio in auto tra i due protagonisti. Un mirabile esempio di cinema raffinato e divertente, capace di regalare un alto tasso di spettacolarità e intrattenimento grazie a un'inventiva sempre sorprendente. La si può definire una delle pellicole più glamour degli anni Cinquanta, grazie anche al fascino dei due interpreti, Grace Kelly e Cary Grant: quest'ultimo tornava sulle scene dopo un'assenza di diciotto mesi che è stata molto chiacchierata dalla stampa dell'epoca. Premio Oscar per la miglior fotografia a Robert Burks. Ultima collaborazione tra Hitchcock e la sua musa Grace Kelly, destinata ad abbandonare definitivamente le scene l'anno successivo dopo aver conosciuto sul set del film il futuro marito Ranieri, principe di Monaco.
Qualche anno più tardi, nel 1958, Hitchcock realizza quello è ritenuto il più grande film della storia del cinema, La donna che visse due volte. A differenza di quello originale (Vertigo) che si focalzza sul trauma a cui deve fare fronte il protagonista, il titolo italiano, decisamente intrigante, ruota attorno alla presenza femminile del film, suggerendo un mistero di impareggiabile fascinazione. Una donna rediviva con il volto felino e seducente di Kim Novak, straordinaria attrice che negli anni '50 e '60 ha trovato il suo apice artistico, collaborando anche con registi del calibro di Otto Preminger, Billy Wilder e Robert Aldrich.
Scottie (James Stewart), un ex detective da poco dimessosi dalla polizia, viene chiamato da un suo vecchio compagno di college per sorvegliare la moglie Madeleine (Kim Novak). La donna, incantevole e tormentata, s'identifica con la bisnonna materna, che si è suicidata a ventisette anni: esattamente l'età di Madeleine. Scottie inizierà a pedinarla nel tentativo di capire l'origine delle sue ossessioni... Un viso di donna. Il dettaglio di un occhio su cui compare una spirale che si svolge lentamente, accompagnata dall'ossessiva partitura musicale di Bernard Herrmann: è solo l'inizio di una delle pellicole più magnetiche e affascinanti di sempre. Ispirata a un romanzo intitolato D'entre les morts, scritto da Pierre Boileau e Thomas Narcejac, che Hitchcock sovverte a suo piacimento, La donna che visse due volte è un'opera estremamente complessa e stratificata, dove si mescolano generi (dal giallo al melodramma) e tematiche differenti (dal doppio alla necrofilia). Forte di diverse sequenze memorabili, il film è ricco di infiniti sottotesti sessuali, mistici e psicoanalitici. Il personaggio di Madeleine altri non è che un riflesso sfuggente di quella bellezza (naturalmente bionda) inseguita dal regista, così come dal protagonista della pellicola, per tutta la vita. Fin dal nome, esplicitamente proustiano, il personaggio femminile è l'ombra di un ricordo che Scottie, nella seconda parte del film, tenterà in tutti i modi di portare a galla, ormai schiavo di un'ossessione lancinante che finirà per consumarlo. Un perfetto compendio della poetica hitchcockiana, nonché un esemplare caso di spiazzante messa in scena cinematografica.
Nonna di Dakota Johnson e madre di Melanie Griffith, Tippi Hedren è la terza e ultima "venere bionda" al centro di questo viaggio nella femminilità hitchcockiana. Forgiata a livello attoriale proprio da Hitchcock, il quale la nota in uno spot e rimane colpito dalle sue movenze, dall'eleganza del volto e dai capelli biondi, tutte caratteristiche della donna-tipo prediletta dal regista, Tippi Hedren esordisce al cinema con il capolavoro Gli uccelli (1963), calandosi nel complesso ruolo della protagonista Melanie Daniels. Considerata da Hitch e da sua moglie Alma la perfetta erede di Grace Kelly, in realtà l'attrice non riuscirà mai a superare il trauma subito durante l'estenuante lavorazione de Gli uccelli. Gli aneddoti sulla crudeltà di Hitchcock sul set non si contano e il clima tensione ha portato Tippi Hedren a un collasso nervoso da cui non si è mai più ripresa.
A San Francisco, un brillante avvocato (Rod Taylor) invita l'affascinante e ricca Melanie (Tippi Hedren) a passare dei giorni in villeggiatura a Bodega Bay, per festeggiare il compleanno della sorellina (Veronica Cartwright). Durante la festa, uno stormo di gabbiani attacca gli invitati: sarà soltanto l'inizio di un terribile incubo in cui gli uccelli seminano il terrore tra gli esseri umani. Liberamente tratto da un racconto di Daphne du Maurier, Gli uccelli è probabilmente il film più estremo del regista inglese, il quale mai prima d'allora si era spinto tanto in là nelle innovazioni degli effetti speciali e nel ricorrere al paranormale. In quello che potrebbe essere definito l'unico horror puro della sua carriera, l'angoscia nasce, in particolar modo, dall'incapacità di capire il motivo di un'aggressione (perché gli uccelli attaccano gli uomini?) che ancora oggi scuote e risulta tra le più inquietanti che si siano mai viste sul grande schermo. Una pellicola complessa, ricca di simbolismi e metafore che rimandano a sottotesti religiosi e riflessioni sociologiche. Un capolavoro immortale, incompreso all'uscita perché troppo moderno e rivoluzionario per il giudizio dell'epoca.
Ancora decisamente provata, Tippi Hedren ha collaborato con il regista londinese anche l'anno successivo per Marnie, quello che è forse il film più audace e perverso della lunga carriera del maestro del brivido. L'avvenente Marnie (Tippi Hedren) è vittima di gravi problemi psicologici che sfociano nella cleptomania: il suo passato nasconde un terribile segreto che continua a tormentarla. Mark (Sean Connery), danaroso e ostinato, decide, nonostante tutto, di sposarla. Cercherà di aiutare la ragazza a qualsiasi costo.

«Chi è Marnie? Una ladra? Una bugiarda? Una truffatrice? Una sensuale? Una adescatrice? Sì, e molto di più!». Questa la tag-line presente sulla locandina italiana dell'epoca. Al di là del fatto che a leggerlo oggi vengano i brividi (per la misoginia, non per la tensione...) lo slogan restituisce la misura di quanto Hitchcock si sia spinto quasi verso un punto di non ritorno del suo cinema. Marnie è un allucinato thriller dell'anima, torbido, morboso e per certi versi sgradevole, esempio principe di quanto si possa osare nella trasposizione delle dinamiche psicanalitiche all'interno della finzione cinematografica. Il trauma di una sessualità repressa si specchia nella reale esasperazione di Tippi Hedren, che dopo questa travagliata lavorazione ha troncato ogni rapporto con Hitchcock.
«Marnie fu un insuccesso cocente e nello stesso tempo un'opera appassionante, che rientra nella categoria dei “grandi film malati”. […] Un'impresa ambiziosa che ha sofferto per errori di percorso: una sceneggiatura impossibile da girare, un cast inadeguato, delle riprese avvelenate dall'odio o accecate dall'amore, uno scarto molto forte tra intenzione ed esecuzione, un impantanarsi non percepibile o un'esaltazione ingannatrice. Evidentemente la nozione di “grande film malato” si può applicare soltanto a grandissimi registi, a quelli che hanno dimostrato in altre circostanze di poter raggiungere la perfezione» (François Truffaut)
Ma ci sono opere "minori" di alcuni registi che valgono intere filmografie di presunti "grandi" autori.
Davide Dubinelli
Uno degli aspetti meno celebrati del cinema di Hitch riguarda la capacità del grande regista britannico di dirigere gli attori. In ogni suo film, si ha sempre la sensazione che gli interpreti non possano compiere azioni o movimenti differenti da quelli che vediamo loro compiere in quel preciso momento. Tutto è perfetto, non un dialogo o un gesto di troppo. Ma la cosa davvero straordinaria risiede nel fatto che questo livello di messa in scena, fuori dal comune, non assume mai i tratti di una rigida e meccanica ripetizione. Grazie a un controllo totale della messa in scena, che passa ad esempio da vertiginosi angoli di ripresa, da incredibili soluzioni di montaggio o da particolari scelte nell'uso espressivo del colore, un film di Alfred Hitchcock lo si riconosce anche solo da una manciata di fotogrammi. E questa unicità si specchia alla perfezione nei volti degli attori e, soprattutto, delle attrici con cui sir Hitchcock ha lavorato, in particolare nel periodo d'oro che abbraccia gli anni '50 e '60.


Sempre dello stesso anno è il capolavoro La finestra sul cortile, una delle opere più importanti di tutta la carriera di Alfred Hitchcock. Un fotoreporter professionista, Jeff (James Stewart), è immobilizzato sulla sedia a rotelle dopo una frattura alla gamba sinistra. Il suo unico passatempo è spiare il vicinato dalla finestra di casa sua: in particolare la sua attenzione si concentra su un uomo misterioso che Jeff crede essere un uxoricida... Un monumentale saggio sulla tensione al cinema e sull'atto della visione, che ha segnato in maniera indelebile la storia del cinema, in cui Hitchcock mette a nudo le ossessioni voyeuristiche e la morbosità dello spettatore. In questo quadro di perfezione totale, come dimenticare la meravigliosa Lisa interpretata da Grace Kelly? Sofisticata ragazza dell'alta società e indossatrice non professionista, Lisa sappiamo essere la fidanzata del protagonista: tutta la prima parte del film, grazie a un colpo di genio del Maestro Hitch e dello sceneggiatore John Michael Hayes (che si è basato sull'omonimo racconto giallo di Cornell Woolrich), diventa una pungente analisi del rapporto di coppia, resa ancora più acuta dalla claustrofobica ambientazione domestica. Lisa non è una presenza "accessoria", ma racchiude in sé tutto l'estro creativo e lo spirito avventuroso di una donna moderna in anticipo sui tempi.
E poi, nel 1955, ecco arrivare Caccia al ladro. L'americano John Robie, detto “il gatto” (Cary Grant), è diventato una celebrità in Francia per il suo grande talento come ladro di gioielli. Ritiratosi dall'attività, si gode la vita in riviera fino a quando viene compiuto un furto che ricorda il suo stile: la polizia sospetta immediatamente di lui. Anche grazie all'aiuto della bella Frances Stevens (Grace Kelly), Robie dovrà dimostrare la propria innocenza. Tratta da un romanzo di David Dodge, una pellicola brillante, un divertissement sofisticato caratterizzato da un ottimo ritmo e da una grande eleganza formale. Una commedia dai risvolti gialli e ricca di ironia, in cui prima ancora dell'intreccio è centrale la costruzione di una tensione narrativa sempre impeccabile corredata da una regia attenta a ogni dettaglio, capace di creare con pochi elementi a disposizione sequenze a dir poco memorabili come la celebre scena del bacio in auto tra i due protagonisti. Un mirabile esempio di cinema raffinato e divertente, capace di regalare un alto tasso di spettacolarità e intrattenimento grazie a un'inventiva sempre sorprendente. La si può definire una delle pellicole più glamour degli anni Cinquanta, grazie anche al fascino dei due interpreti, Grace Kelly e Cary Grant: quest'ultimo tornava sulle scene dopo un'assenza di diciotto mesi che è stata molto chiacchierata dalla stampa dell'epoca. Premio Oscar per la miglior fotografia a Robert Burks. Ultima collaborazione tra Hitchcock e la sua musa Grace Kelly, destinata ad abbandonare definitivamente le scene l'anno successivo dopo aver conosciuto sul set del film il futuro marito Ranieri, principe di Monaco.
Qualche anno più tardi, nel 1958, Hitchcock realizza quello è ritenuto il più grande film della storia del cinema, La donna che visse due volte. A differenza di quello originale (Vertigo) che si focalzza sul trauma a cui deve fare fronte il protagonista, il titolo italiano, decisamente intrigante, ruota attorno alla presenza femminile del film, suggerendo un mistero di impareggiabile fascinazione. Una donna rediviva con il volto felino e seducente di Kim Novak, straordinaria attrice che negli anni '50 e '60 ha trovato il suo apice artistico, collaborando anche con registi del calibro di Otto Preminger, Billy Wilder e Robert Aldrich.
Scottie (James Stewart), un ex detective da poco dimessosi dalla polizia, viene chiamato da un suo vecchio compagno di college per sorvegliare la moglie Madeleine (Kim Novak). La donna, incantevole e tormentata, s'identifica con la bisnonna materna, che si è suicidata a ventisette anni: esattamente l'età di Madeleine. Scottie inizierà a pedinarla nel tentativo di capire l'origine delle sue ossessioni... Un viso di donna. Il dettaglio di un occhio su cui compare una spirale che si svolge lentamente, accompagnata dall'ossessiva partitura musicale di Bernard Herrmann: è solo l'inizio di una delle pellicole più magnetiche e affascinanti di sempre. Ispirata a un romanzo intitolato D'entre les morts, scritto da Pierre Boileau e Thomas Narcejac, che Hitchcock sovverte a suo piacimento, La donna che visse due volte è un'opera estremamente complessa e stratificata, dove si mescolano generi (dal giallo al melodramma) e tematiche differenti (dal doppio alla necrofilia). Forte di diverse sequenze memorabili, il film è ricco di infiniti sottotesti sessuali, mistici e psicoanalitici. Il personaggio di Madeleine altri non è che un riflesso sfuggente di quella bellezza (naturalmente bionda) inseguita dal regista, così come dal protagonista della pellicola, per tutta la vita. Fin dal nome, esplicitamente proustiano, il personaggio femminile è l'ombra di un ricordo che Scottie, nella seconda parte del film, tenterà in tutti i modi di portare a galla, ormai schiavo di un'ossessione lancinante che finirà per consumarlo. Un perfetto compendio della poetica hitchcockiana, nonché un esemplare caso di spiazzante messa in scena cinematografica.
Nonna di Dakota Johnson e madre di Melanie Griffith, Tippi Hedren è la terza e ultima "venere bionda" al centro di questo viaggio nella femminilità hitchcockiana. Forgiata a livello attoriale proprio da Hitchcock, il quale la nota in uno spot e rimane colpito dalle sue movenze, dall'eleganza del volto e dai capelli biondi, tutte caratteristiche della donna-tipo prediletta dal regista, Tippi Hedren esordisce al cinema con il capolavoro Gli uccelli (1963), calandosi nel complesso ruolo della protagonista Melanie Daniels. Considerata da Hitch e da sua moglie Alma la perfetta erede di Grace Kelly, in realtà l'attrice non riuscirà mai a superare il trauma subito durante l'estenuante lavorazione de Gli uccelli. Gli aneddoti sulla crudeltà di Hitchcock sul set non si contano e il clima tensione ha portato Tippi Hedren a un collasso nervoso da cui non si è mai più ripresa.
A San Francisco, un brillante avvocato (Rod Taylor) invita l'affascinante e ricca Melanie (Tippi Hedren) a passare dei giorni in villeggiatura a Bodega Bay, per festeggiare il compleanno della sorellina (Veronica Cartwright). Durante la festa, uno stormo di gabbiani attacca gli invitati: sarà soltanto l'inizio di un terribile incubo in cui gli uccelli seminano il terrore tra gli esseri umani. Liberamente tratto da un racconto di Daphne du Maurier, Gli uccelli è probabilmente il film più estremo del regista inglese, il quale mai prima d'allora si era spinto tanto in là nelle innovazioni degli effetti speciali e nel ricorrere al paranormale. In quello che potrebbe essere definito l'unico horror puro della sua carriera, l'angoscia nasce, in particolar modo, dall'incapacità di capire il motivo di un'aggressione (perché gli uccelli attaccano gli uomini?) che ancora oggi scuote e risulta tra le più inquietanti che si siano mai viste sul grande schermo. Una pellicola complessa, ricca di simbolismi e metafore che rimandano a sottotesti religiosi e riflessioni sociologiche. Un capolavoro immortale, incompreso all'uscita perché troppo moderno e rivoluzionario per il giudizio dell'epoca.
Ancora decisamente provata, Tippi Hedren ha collaborato con il regista londinese anche l'anno successivo per Marnie, quello che è forse il film più audace e perverso della lunga carriera del maestro del brivido. L'avvenente Marnie (Tippi Hedren) è vittima di gravi problemi psicologici che sfociano nella cleptomania: il suo passato nasconde un terribile segreto che continua a tormentarla. Mark (Sean Connery), danaroso e ostinato, decide, nonostante tutto, di sposarla. Cercherà di aiutare la ragazza a qualsiasi costo.

«Chi è Marnie? Una ladra? Una bugiarda? Una truffatrice? Una sensuale? Una adescatrice? Sì, e molto di più!». Questa la tag-line presente sulla locandina italiana dell'epoca. Al di là del fatto che a leggerlo oggi vengano i brividi (per la misoginia, non per la tensione...) lo slogan restituisce la misura di quanto Hitchcock si sia spinto quasi verso un punto di non ritorno del suo cinema. Marnie è un allucinato thriller dell'anima, torbido, morboso e per certi versi sgradevole, esempio principe di quanto si possa osare nella trasposizione delle dinamiche psicanalitiche all'interno della finzione cinematografica. Il trauma di una sessualità repressa si specchia nella reale esasperazione di Tippi Hedren, che dopo questa travagliata lavorazione ha troncato ogni rapporto con Hitchcock.
«Marnie fu un insuccesso cocente e nello stesso tempo un'opera appassionante, che rientra nella categoria dei “grandi film malati”. […] Un'impresa ambiziosa che ha sofferto per errori di percorso: una sceneggiatura impossibile da girare, un cast inadeguato, delle riprese avvelenate dall'odio o accecate dall'amore, uno scarto molto forte tra intenzione ed esecuzione, un impantanarsi non percepibile o un'esaltazione ingannatrice. Evidentemente la nozione di “grande film malato” si può applicare soltanto a grandissimi registi, a quelli che hanno dimostrato in altre circostanze di poter raggiungere la perfezione» (François Truffaut)
Ma ci sono opere "minori" di alcuni registi che valgono intere filmografie di presunti "grandi" autori.
Davide Dubinelli