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Back to the Future: i film degli anni '80 e '90 che non ti aspetti su Disney+
Piattaforma streaming in continua evoluzione, Disney+ offre un catalogo che va ben oltre i classici di animazione, le saghe Marvel, Stars Wars e i suoi innumerevoli spin-off. Grazie al pacchetto Star, incluso nell'abbonamento standard, ecco spuntare alcuni inaspettati titoli che ci riportano indietro nel tempo, ad attori straordinari che hanno dato il volto a storie che non ci stancheremo mai di rivivere.

Se poi i film sono degli anni '80 e '90 ecco che la magia è fatta. Perché, si sa, la nostalgia rimarrà sempre il nostro sport preferito. Preparate i pop corn per un entusiasmante "ritorno al futuro" che parte con la scultorea fisicità di Schwarzenegger e termina con il potente e allucinato cinema di Martin Scorsese.

Conan il barbaro (John Milius, 1982)


Ispirato alle gesta del personaggio creato dallo scrittore Robert Ervin Howard nel 1932, Conan il barbaro è diventato presto un cult del cinema anni '80, soprattutto per aver lanciato Arnold Schwarzenegger (ex culturista professionista) tra le stelle di Hollywood, con un ruolo entrato nell'immaginario popolare. Diretto dal veterano John Milius (autore anche della sceneggiatura insieme a Oliver Stone), è un racconto fantasy di aspra bellezza e suggestivo fascino primitivo, che prende le mosse dalla cultura medievale e dalla mitologia norrena. I temi archetipici messi in campo (violenza, amore, vendetta) sono trattati con cura, mentre un'eccessiva prolissità e alcuni momenti di stanca nella parte centrale tolgono un po' di spessore a un prodotto comunque riuscito e altamente spettacolare. Magnifica colonna sonora di Basil Poledouris. Max von Sydow interpreta il re Osric "l'usurpatore". Prodotto da Dino De Laurentiis.

Ladyhawke (Richard Donner, 1985)


Delicato e poetico fantasy immerso in una nebulosa atmosfera medievale, Ladyhawke rappresenta una delle storie d'amore più romantiche e originali degli anni '80. L'impossibilità dei due amanti di incontrarsi e il loro doversi accontentare di vedere l'altro sotto le spoglie dell'animale in cui viene tramutato commuove sempre, anche a distanza di anni. Si perdonano facilmente le ingenuità dovute a dinamiche vicine alla soap opera, anche perché Richard Donner maneggia la materia con spirito avventuroso. Grazie anche allo charme dei due protagonisti, una splendida e dolente Michelle Pfeiffer e un affascinante Rutger Hauer, il film si è guadagnato lo status di piccolo classico all'interno del genere. Girato quasi interamente in Italia, nonostante sia ambientato in una Francia ipotetica. Colonna sonora di ottimo livello di Andrew Powell, collaboratore dei The Alan Parsons Project. Buonismo a palate, un pizzico di anticlericalismo (il Vescovo malvagio è in combutta con Satana) e toni fiabeschi per un intrattenimento di buona qualità.

La mosca (David Cronenberg, 1986)


Realizzando il remake di L'esperimento del dottor K. (1958) di Kurt Neumann, David Cronenberg spicca il volo e firma una delle opere più mature e significative all'interno della fantascienza degli anni '80: un horror d'autore che, prendendo le mosse dalla sci-fi classica, aggiorna gli stilemi del genere spingendo al massimo nella rappresentazione delle mutazioni del corpo e nel mostrare le derive di uno sviluppo tecnologico incontrollato. La presenza fisica dei corpi vive ossessivamente in ambienti cupi contrassegnati dalla presenza di congegni metallici e calcolatori informatici all'avanguardia per l'epoca, in una messa in scena rigorosa che passa in rassegna carne, violenza, sessualità deviata, paura del contagio e contaminazione come elemento primario della degenerazione umana. Notevole la capacità di distaccarsi dall'originale, scegliendo di affrontare il processo di mutazione attraverso fasi precise sempre più agghiaccianti. In questo modo il regista attua un climax emotivo che suscita pietà anziché disgusto, anche di fronte a metamorfosi di volta in volta sempre più estreme, e commuove tratteggiando una delle storie d'amore più belle (e tragiche) della storia del cinema. Geena Davis (nei panni della giornalista Ronnie) all'epoca era realmente la compagna di Jeff Goldblum. Intensa e toccante colonna sonora di Howard Shore.

La guerra dei Roses (Danny DeVito, 1989)


Amara e nerissima commedia sulla fine del sogno americano, in cui il matrimonio non è più dipinto come un idillio ma come una trappola infernale, La guerra dei Roses testimonia come anche dopo anni trascorsi insieme non si impari mai a conoscere chi ci stia accanto. Nei miseri e sempre più cattivi dispetti di Barbara (Kathleen Turner), che Oliver (Micheal Douglas) ricambia più per disperazione che per disamore reciproco, c'è tutto il sordo dolore di una donna frustrata che sente di aver sprecato la propria vita, e che colpevolizza il compagno arrivando a odiarlo a morte. Impossibile non divertirsi con i mille siparietti al vetriolo, di cui fanno le spese cane, gatto e il bell'arredo della casa tanto amata, ma è anche altrettanto inevitabile fermarsi a riflettere e spaventarsi della pericolosità del rovescio della medaglia coniugale. Ma in fondo, la conclusione con l'invito a trovare rimedio ai disaccordi di coppia non è poi così nefasta. Perfetti Douglas, innamorato ferito, e la Turner, glaciale e indifferente, ben supportati dall'avvocato DeVito e da Marianne Sägebrecht nel ruolo della cameriera. Vivace la regia, che sceglie spesso angolazioni ardite e movimenti di macchina azzardati, in accordo con il climax catastrofico ascendente.

Romeo + Giulietta di William Shakespeare (Baz Luhrmann, 1996)


Splendida trasposizione in chiave contemporanea, ambientata nell'incandescente e multietnica Los Angeles degli anni '90, della celebre tragedia di William Shakespeare, in cui Baz Luhrmann omaggia esplicitamente il teatro che in gioventù ha tanto amato. L'opera ripropone la triste vicenda dei due innamorati veronesi, ma in un contesto postmoderno che offre al pubblico una nuova e interessante prospettiva: le spade sono sostituite dalle pistole e le due famiglie sono rivali nel contendersi un grande giro di affari. La pimpante sceneggiatura (di Craig Pearce e dello stesso Luhrmann) mette bene in risalto il punto di incontro tra due diverse culture, accostando dialoghi altezzosi e impegnati (tipici del testo originale) a soluzioni leggere e spensierate, tipiche di un cinema vitale che ammicca anche a un (raffinato) pubblico giovanile. Riconfermando quei tratti autoriali che avevano decretato il successo critico di Ballroom – Gara di ballo (1992), suggellati da una maggiore maturità, Luhrmann punta su un montaggio frenetico e su una fotografia dolce e sensuale, in cui al centro c'è l'amore tra i due protagonisti. Leonardo DiCaprio (Orso d'argento a Berlino come miglior attore), sulla rampa di lancio del successo, si dimostra l'interprete ideale per unire ribellione giovanile ed etereo sex-appeal.

Face/Off – Due facce di un assassino (1997)


l terzo lungometraggio americano dopo i mediocri Senza tregua (1993) e Nome in codice: Broken Arrow (1996), il regista di Hong Kong John Woo riesce finalmente a dare sfogo alla sua verve creativa in quello che resta di gran lunga il suo miglior prodotto di tutto il periodo negli Usa. Grazie a un budget consistente e a quella libertà di movimento che finora era stata negata all'autore, Hollywood si piega al Woo-pensiero: il risultato è un irresistibile saggio di cinema action che fa scomparire la maggior parte delle omologhe pellicole americane contemporanee. Bene e Male si scambiano letteralmente il volto in un'epica lotta senza respiro e dagli infiniti risvolti psicanalitici, che trova perfetta incarnazione nei carismatici protagonisti Travolta e Cage. Dal ralenti dominante alle sparatorie coreografate, i segni stilistici del cinema di Woo ci sono tutti e travolgono lo spettatore in un crescendo di meraviglia visiva. Impossibile non nominare la scena dello scontro nella chiesa, goduriosa autocitazione dell'analoga sequenza di The Killer (1989), e il lungo inseguimento a bordo dei motoscafi. Volano colombe bianche, le pistole sparano proiettili inesauribili, le esplosioni abbondano. E il divertimento è assicurato.

La sottile linea rossa (Terrence Malick, 1998)


La terza regia di Terrence Malick è arrivata a vent'anni di distanza da I giorni del cielo (1978) e dopo un volontario esilio dal mondo del cinema. Nuovo adattamento del romanzo di James Jones (la precedente versione, La sottile linea rossa del 1964, è stata firmata da Andrew Marton), il film prende a pretesto il secondo conflitto mondiale per riflettere sul senso dell'esistenza, sulla cieca ferocia dell'essere umano e sull'assurdità della guerra. Un racconto polifonico in cui i monologhi interiori dei vari personaggi accompagnano immagini di struggente bellezza arricchendole di un'aura filosofica, mentre la narrazione procede per ellissi, suggestioni visive e riflessioni spirituali, dando forma cinematografica a un ininterrotto flusso di coscienza che passa da un soldato all'altro, amplificando il disagio emotivo di ciascuno ed evidenziando le sofferte contraddizioni tra il pensiero e l'azione. Come sempre in Malick, i personaggi si muovono sullo sfondo di una natura bellissima ma indifferente alle sorti umane, elemento né benevolo né maligno in grado di mettere a nudo miserie e fragilità sia di carattere individuale che universale. Un'opera complessa e struggente, profonda e memorabile, capace di parlare con uguale intensità agli occhi, alla mente e al cuore dello spettatore. Il ricchissimo cast di divi sarebbe potuto essere ancora più cospicuo: alcune star (come Leonardo DiCaprio, Nicolas Cage, Brad Pitt e Kevin Costner) sono state scartate dal regista; altre hanno visto il loro ruolo cancellato in sede di montaggio (Gary Oldman, Mickey Rourke, Viggo Mortensen, Martin Sheen e Bill Pullman). Orso d'oro a Berlino e sette nomination all'Oscar, ma nessuna statuetta vinta. Il titolo si rifà a un verso di Rudyard Kipling: «Tra la lucidità e la follia c'è solo una sottile linea rossa».

Al di là della vita (Martin Scorsese, 1999)



Dal discusso romanzo di Joe Connelly, in cui l'autore si è ispirato direttamente alla sua esperienza in un corpo di Pronto Soccorso, Martin Scorsese ha tratto un film potente e allucinato nel quale è tornato a collaborare in veste di sceneggiatore il sodale Paul Schrader. Sin dalla prima inquadratura è evidente l'omaggio al loro film più popolare, Taxi Driver (1976): tornano le strade marce e infernali di New York, popolate da un'umanità gretta e miserabile, mentre al taxi di Travis Bickle si sostituisce l'ambulanza del paramedico Frank, anch'egli eroe “santo” e cristologico sull'orlo dell'abisso, alla disperata ricerca di redenzione da un mondo dove la morte è all'ordine del giorno. Nonostante ci sia qualche scivolata nel grottesco (ed è lecito sollevare dei dubbi sulla pur intensa interpretazione di Cage), la critica è stata decisamente troppo severa nei confronti di questo film: in fondo, ci troviamo di fronte a un'opera scorsesiana al 100%, in cui l'innegabile impatto visivo, quasi psichedelico, delle sequenze più disturbanti e la frenesia dei movimenti di macchina compensano largamente i difetti. Cast di comprimari in ottima forma, in cui spicca in particolare l'ottima interpretazione di un irriconoscibile Ving Rhames. Magistrale fotografia di Robert Richardson.

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