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Jane Campion – I sentieri impervi dell'animo umano tra passione e razionalità

Regista e sceneggiatrice neozelandese, Jane Campion rappresenta uno dei nomi cruciali all'interno del cinema conteporaneo, in grado di imporsi fin da subito per la propria sensibilità e per la capacità di racchiudere nella propria opera una poetica coerente e mai accomodante. La figura della donna, vista in tutta la sua complessità attraverso un intenso sguardo femminile, abbandona ogni forma di cliché romantico, per approdare a una riflessione intima che dialoga con la contemporaneità.


«Il romanticismo fa parte di ciascuno di noi e a volte lo viviamo per brevi periodi, ma non può durare per molto tempo. È un percorso eroico, che spesso finisce pericolosamente»



Riferimenti colti alla letteratura, alla musica e alle arti figurative danno forma a percorso artistico in cui Campion modella sullo schermo il proprio background culturale, senza mai lasciare in secondo piano il suo impegno concreto, iniziato in giovane età subito dopo gli studi, per combattere la disparità di genere nell'industria cinematografica. Laureata in Antropologia strutturale all'Università Victoria di Wellington, frequenta con successo anche l'Accademia delle belle arti di Sydney, dove studia pittura ispirandosi al minimalismo e all'arte concettuale, per poi esordire nel lungometraggio con il film TV Le due amiche (1986), storia di amicizia, rancori e piccole grandi incomprensioni tra due quindicenni, compagne di college, le quali vedono il proprio affiatato rapporto diventare sempre più fragile. La pellicola, efficace ma acerba, è caratterizzata da una narrazione a ritroso che conduce lo spettatore al culmine dell'affiatamento tra le due protagoniste, analizzando "a posteriori" le tappe di tale rottura: la stoffa della grande autrice già c'è, deve solo essere finemente lavorata.




L'esordio al cinema
avviene con Sweetie (1989), presentato in concorso a Cannes non senza polemiche a causa dei suoi contenuti "troppo espliciti". Cinema spiazzante e vitale, un'autentica boccata di aria fresca votata in maniera naturale a rompere i rigidi schemi dei salotti buoni del cinema: un ritratto di famiglia disfunzionale tra il tragico e il grottesco, con al centro Sweetie, adolescente obesa e con più di un problema mentale che vive una vita fuori dall'ordinario accanto alla sorella sessuofoba Kay. Non un'ombra di provocazione gratuita, ma solo la voglia di mettersi in gioco con viscerale entusiasmo e notevole padronanza del mezzo cinematografico. Eccentrici amplessi, danze tra cowboy, liti, ossessioni e un clima di ordinaria follia al di là di qualsiasi convenzione (hollywoodiana).


Ma è nel 1990 con Un angelo alla mia tavola che si impone all'attenzione internazionale. Al suo terzo lungometraggio, Campion fa centro e, basandosi sull'omonima autobiografia di Janet Frame (1924-2004), candidata due volte al premio Nobel per la letteratura, realizza un affresco sulla diversità scabro e bellissimo, oltre che sostenuto da un partecipe sguardo femminile di rara intensità. Il film, incentrato sulla sofferta parabola esistenziale della protagonista, cresciuta in condizioni di estrema difficoltà nella campagna neozelandese coltivando il sogno di diventare scrittrice, è quanto di più straordinario abbia mai realizzato la regista neozelandese. La non-convenzionalità è alla base di una pellicola che esplora, attraverso gli occhi di Janet, le brutture della vita, in un percorso alla scoperta del proprio corpo oltre che dei propri istinti. Sullo sfondo, la natura selvaggia e incontaminata, che rimane l'unico baluardo di pace e remota serenità. Razionale eppure emotivamente potente, il film è sublimato dalla forza espressiva di Campion, il cui tocco registico è sempre prezioso e mai invasivo. Una elegia simile a un poema visivo sull'incapacità di essere felici all'interno di un ambiente anomalo. Leone d'argento, Gran premio speciale della giuria e Premio OCIC alla Mostra del Cinema di Venezia.




Ma è con Lezioni di piano (1993) che Jane Campion realizza il suo capolavoro. Un potente dramma di fosco romanticismo che contrappone pulsione sessuale e purezza virginale, assordante silenzio e parola, innocenza e colpevolezza, sopraffazione e sottomissione. Cinema e letteratura trovano un punto di contatto nella musica, la forma d'arte più pura, poiché presente in natura al di là dello strumento che la produce. Erotismo, violenza e passione sono pronti a esplodere sotto a una superficie di calma apparente. Il fascino selvaggio dell'ostile paesaggio neozelandese battuto dalla pioggia, le eccellenti interpretazioni e la colonna sonora di Michael Nyman concorrono a un risultato finale di rara suggestione. Un inno alla vita, prima ancora che uno straordinario ritratto femminile. «Io non penso a me come una creatura silenziosa, e questo grazie al mio pianoforte». Tre Oscar (attrice protagonista, attrice non protagonista, sceneggiatura) più altre cinque nomination (film, regia, fotografia, montaggio, costumi). Storica Palma d'oro (la prima per una donna), ex aequo con Addio mia concubina di Chen Kaige, e premio alla migliore attrice (Holly Hunter) al Festival di Cannes.


A tre anni da Lezioni di piano, Jane Campion entra nelle pagine dell'omonimo romanzo (1881) di Henry James e con il raffinatissimo Ritratto di signora (1996) conferma il suo sguardo attento per il mondo femminile, le trasgressioni alle regole sociali e le contrapposizioni tra culture diverse. L'approccio naturalmente letterario della regista neozelandese si mette al servizio del fervido ritratto tra luci e ombre della sfuggente e repressa protagonista, la giovane ereditiera americana Isabel (Nicole Kidman), donna che dietro una maschera di gelida emancipazione vive di sentimenti contrastanti alla ricerca di una impossibile via di fuga. Quanto si è disposte a rinunciare per rivendicare la propria autonomia? Qual è il prezzo da pagare per sentirsi vive? Freddo nella rappresentazione di una ribollente tensione emotiva, spesso surrogato del desiderio sessuale, il film scorre sinuoso e provocante, illuminato da notevoli virtuosisimi stilistici. Kidman in stato di grazia, ma Barbara Hershey (la diabolica Madame Merle) e John Malkovich (il magnetico dandy Gilbert Osmond) non sono da meno. Sontuosa fotografia di Stuart Dryburgh e musiche di Wojciech Kilar.




Abbastanza trascurabile è invece Holy Smoke (1999), quadretto ben poco ispirato sul confronto tra culture diverse e, soprattutto, sul confronto tra mondo maschile e mondo femminile (che esce vincitore). La forza espressiva della regista neozelandese appare smorzata, nel tentativo di coniugare realismo e sprazzi di spiritualismo e le due star protagoniste, Harvey Keitel e Kate Winslet, non aggiungono molto all'operazione. Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Ben più interessante, per quanto solo parzialmente riuscito, è il successivo In the Cut (2003), insolita e personalissima variazione sui temi cari dell'oppressione e della condizione di precarietà della donna per Jane Campion, la quale trasferisce tutta la sua forza espressiva in un thriller cupo e ambiguo, caratterizzato da echi metafisici e un'atmosfera di latente morbosità. Un "ritratto di signora" dal basso, in cui i torvi anfratti dove si muovono l'insegnante Meg Ryan e il detective Mark Ruffalo lasciano ben poco spazio alla luce del giorno. Voyeurismo (con una fellatio censurata in Italia) e carica erotica al grado zero, in un apologo sulla brutalità dell'uomo e il lato oscuro della femminilità consapevole di spingersi oltre al limite. Eccessivamente esplicito e violento, il film finisce per essere una discesa agli inferi fastidiosamente programmatica, ma che coraggio.


Campion torna ad alti livelli con Bright Star (2009), splendido racconto che porta sullo schermo gli ultimi tre anni di vita del poeta inglese John Keats (Ben Whishaw), prematuramente scomparso nel 1821 a soli venticinque anni. L'ottavo lungometraggio di Jane Campion è un lucido melodramma raffreddato, perfettamente in linea con la poetica dell'autrice che, non a caso, mette al centro della vicenda la figura femminile di Fanny Brawne (Abbie Cornish), musa di Keats. Un'opera sull'arte e sull'amore, dal respiro letterario ma anche dal rigoroso impianto cinematografico: oltre alle parole colte, conta la potenza delle immagini (come sempre in Campion), che permette ai sentimenti di manifestarsi sullo schermo. Un film romantico in senso stretto, capace di rispecchiare quel Romanticismo di cui Keats fu uno dei più significativi esponenti. Dietro alle emozioni, appena sussurrate, si nasconde un tumultuoso prisma di pulsioni inconfessate. Il titolo è tratto da un sonetto di Keats dal titolo Bright star, would I were steadfast as thou art. Presentato in concorso al Festival di Cannes.




Dodici anni dopo Bright Star, Campion torna al cinema con Il potere del cane (2021), adattamento distribuito da Netflix dell'omonimo romanzo (1967) di Thomas Savage, dal quale la regista ha dichiarato di essere rimasta letteralmente folgorata. Tutti i temi tipici del cinema di Jane Campion confluiscono in un racconto che ruota tutto attorno alle psicologie dei personaggi. Phil (Benedict Cumberbatch) e George (Jesse Plemons), ricchi allevatori nel Montana degli anni ’20, sono due fratelli molto diversi tra loro: il primo è un carismatico allevatore, che incute paura e rispetto alle persone attorno a lui, il secondo un uomo decisamente più timido e insicuro. Quando George porta a vivere nel ranch di famiglia la nuova moglie (Kirsten Dunst) e l'efebico figlio di lei (Kodi Smit-McPhee), Phil inizierà a tormentarli finché alcune dinamiche lo renderanno più vulnerabile che mai. Non tutto quadra a dovere, soprattutto nella interlocutoria prima parte, ma il nitore pittorico delle immagini e il dirompente magnetismo di Cumberbatch sono davvero notevoli. Quando le triangolazioni, i rapporti di forza e i nessi di causa ed effetto si trovano a configgere e a emergere in tutta la loro silente ma ferita brutalità, il film impressiona per intensità, delineando la fisionomia di una sorta di poetico e inquieto cuore di tenebra. Leone d'argento per la miglior regia a Venezia.


Davide Dubinelli

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