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Born in the USA: i classici di John Ford e Howard Hawks da non perdere su RaiPlay
Nella vasta ed eterogenea proposta di RaiPlay, c'è anche una manciata di titoli che ci riporta con la mente e con il cuore al più straordinario cinema americano del tempo che fu. Un ritorno al passato alle radici della classicità, che ci permette di incantarci, ancora una volta, di fronte ad autentici evergreen del western, dell'avventura e della commedia. Perché John Ford e Howard Hawks sono la storia del cinema.

«È brutta la vecchiaia. Un giorno capirete cosa significhi per un soldato: oggi capitano di uno squadrone e tutti i suoi uomini dipendono da lui, i tenenti tremano quando sbraita... e domani invece sarà felice se il maniscalco si offrirà di ferrargli un cavallo» (I cavalieri del nord ovest, 1949)


Ecco, in ordine cronologico, i titoli di Ford e Hawks disponibili sulla piattaforma streaming della Rai:

IL TRADITORE (1935)


Dublino, 1916. Il rivoluzionario Gypo Nolan (Victor McLaglen) vende all'esercito inglese l'amico Frankie (Wallace Ford): con il denaro ottenuto potrà finalmente partire per l'America con Katie (Margot Grahame). Ma Gypo non ha fatto i conti con il rimorso che lo tormenterà inesorabilmente. Tra le diverse pellicole di John Ford ambientate in Irlanda è il film, insieme a L'aratro e le stelle (1936), che affronta più direttamente il tema della lotta per l'indipendenza. Riadattando l'omonimo romanzo di Liam O'Flaherty (migliorandolo), il regista cala in questo contesto politico ricostruito con efficacia un racconto universale di peccato e sacrificio vissuto dal punto di vista di un moderno Giuda. Antieroe tragico che si muove tra le nebbie di una Dublino notturna e disperata, Gypo gronda tenerezza e umanità dal fisico ingombrante di McLaglen, caratterista feticcio di Ford finalmente alle prese con un ruolo da protagonista assoluto. Teatrale (perché collocato nelle unità di tempo, luogo e d'azione) ma splendidamente verista, vive di un'atmosfera tesa, una buona caratterizzazione dei personaggi e uno stile visivo molto influenzato dall'Espressionismo. Presentato alla terza Mostra di Venezia, ha vinto quattro Oscar: regia, attore protagonista, sceneggiatura originale (Dudley Nichols), colonna sonora (Max Steiner). Rifatto da Jules Dassin nel 1968 con Tradimento, che sposta la vicenda all'interno del movimento Black Power.

SUSANNA! (1938)


Il paleontologo David Huxley (Cary Grant), alle prese con la ricostruzione dello scheletro di un brontosauro e in procinto di sposarsi, fa fortuitamente la conoscenza di Susan (Katharine Hepburn), svampita ereditiera che in pochi giorni gli stravolgerà la vita. Bocciato dal pubblico al momento dell'uscita – fatto che costrinse il regista Howard Hawks ad abbandonare il successivo film prodotto dalla RKO – Susanna! è diventato, con il passare degli anni, un vero e proprio classico, sia della screwball comedy degli anni '30 che, soprattutto, della commedia sofisticata americana tout court. La gag fisica prevale spesso sui dialoghi, dimostrando ancora una certa persistenza della comicità slapstick tipica del cinema muto, in una pellicola dal ritmo straordinario e valorizzata da due personaggi immortali e scritti con enorme spessore: sciocco, impacciato, ingessato e timido lui, svampita, naïf e maldestra lei. Cary Grant e Katharine Hepburn, con i loro irresistibili battibecchi, hanno un feeling perfetto e si dimostrano una delle coppie da grande schermo più efficaci di tutta la Hollywood classica. Tante le scene d'antologia: dallo sketch dei vestiti strappati alla cena di gala, destinata a essere ripresa da altri film (compreso Lo sport preferito dall'uomo del 1964, sempre di Hawks), all'apparizione del leopardo Baby, mentre la Hepburn, indifferente, parla al telefono. Un mix perfetto di comicità raffinatissima, irriverente e stralunata. Curiosità: Susanna! è il primo film dove compare la parola “gay”. Quando infatti Grant finisce vestito con il négligé della Hepburn e viene interrogato a riguardo, risponde «Because I just went gay!», tradotto nella versione italiana in «Perché sono appena diventato pazzo!». Ne esiste anche una versione a colori passata in televisione.

IL MASSACRO DI FORT APACHE (1948)


Il colonnello Thursday (Henry Fonda) prende il comando di Fort Apache, dove si stabilisce con la figlia Philadelphia (Shirley Temple). Insofferente per essere stato confinato in un avamposto sperduto, si scontra con il più lungimirante capitano York (John Wayne) e scatena un'assurda guerra contro gli Apache. Si apre quella che nella filmografia di John Ford è comunemente definita “Trilogia della Cavalleria” (insieme a I cavalieri del Nord Ovest, del 1949, e Rio Bravo, del 1950), dedicata alle gesta delle truppe americane dislocate nel West nella seconda metà dell'Ottocento, con particolare attenzione alla quotidianità della vita militare. Rispetto alle altre due pellicole, l'atmosfera è meno spensierata, poiché la rappresentazione gioiosa dell'universo marziale tanto caro a Ford si intreccia a una rilettura dissacrante del mito del generale George A. Custer, trasfigurato nel personaggio ottuso, ambizioso e razzista di Thursday/Fonda. Guerrafondaio, incapace di aprirsi alla cultura “altra” (gli Apache del pacifico Cochise, ma anche i troppo “rozzi” commilitoni irlandesi), non può che trascinare i suoi uomini in un massacro tragico quanto inutile. Il finale lascia l'amaro in bocca: è retorico e filo-militarista o definitivamente derisorio? A ogni modo, è un film godibile, significativo e non privo di lirismo, oltre che il più memorabile tra quelli interpretati in età adulta dall'ex enfant prodige Shirley Temple.

I CAVALIERI DEL NORD OVEST (1949)


Il capitano Nathan Brittles (John Wayne), a un passo dal congedo, è chiamato a condurre un'ultima campagna contro un bellicoso gruppo di Cheyenne. La presenza di Olivia (Joanne Dru), figlia di un maggiore, scatena una rivalità amorosa tra il tenente Cohill (John Agar) e il sottotenente Pennell (Harry Carey Jr.). «She Wore a Yellow Ribbon» recitava un allegro canto militare: da qui il titolo originale del film, secondo episodio della trilogia di John Ford dedicata alla cavalleria statunitense nel West. Il nastro giallo che decora i capelli di Olivia (a simboleggiare l'amore per un ufficiale) dà vita al triangolo sentimentale che costituisce uno degli assi della pellicola; alla spensieratezza della gioventù si contrappone l'eroica figura paterna impersonata da un Wayne malinconico e invecchiato, che si fa emblema romantico di un'era al tramonto. Tra (poche) battaglie, schermaglie amorose e spassosi siparietti comici con protagonista McLaglen (nei panni del burbero sergente irlandese, tipica macchietta fordiana) si sviluppa questo adorabile affresco di un mondo militare che ha ben poco di militarista, un'epopea narrata da Ford con nostalgia e non senza idealizzazione. L'amicizia virile e il cameratismo sono i temi centrali, ma non va trascurata la condanna alla violenza, quando inutile e gratuita. Oscar alla fotografia di Winton C. Hoch, incaricato di ricreare lo stile pittorico di Frederic Remington. Il paesaggio è ovviamente quello della Monument Valley; e pazienza se i Cheyenne, nella realtà, vivevano da tutt'altra parte.

LA CAROVANA DEI MORMONI (1950)


Una comunità mormone compie un lungo viaggio per trasferirsi nella fertile vallata del fiume San Juan, con l'aiuto dei cowboy Travis (Ben Johnson) e Sandy (Harry Carey Jr.). Lungo il tragitto, incontrano un bizzarro trio di personaggi, una tribù di indiani e un gruppo di pericolosi banditi. Tra i western più dimenticati di John Ford, è anche uno di quelli in cui lo spirito dei pionieri alla base dell'epica americana si unisce maggiormente all'influenza del racconto biblico: il cammino dei mormoni protagonisti – outsider della società civile quanto la prostituta interpretata da Joanne Dru o come molti altri eroi della filmografia fordiana – è del tutto accostabile a quello del popolo ebraico verso la “terra promessa”. L'avventura è ben calibrata con l'umorismo e l'elemento amoroso, mentre la violenza è delegata in secondo piano, usata solo quando necessario. Non privo di momenti di grandissimo cinema (la traversata nella polvere) e tocchi di modernità (il prologo prima dei titoli di testa), è l'ennesima dimostrazione dell'abilità di Ford nella costruzione dell'inquadratura, che valorizza sia i personaggi che il magnifico sfondo della Monument Valley. Mancano del tutto le star di Hollywood, ma finalmente occupano un ruolo centrale quei grandi caratteristi che sono sempre stati spina dorsale del cinema del regista, come Ward Bond o Ben Johnson (più avanti volto feticcio anche del cinema di Sam Peckinpah). Ne derivò la serie TV Carovane verso il West (1957-65).

LA COSA DA UN ALTRO MONDO (1951)


In una base di ricerca in Alaska, un gruppo di scienziati, accompagnato dal capitano Pat Hendry (Kenneth Tobey) e dal giornalista Ned Scott (Douglas Spencer), scopre un disco volante intrappolato sotto i ghiacci e ne estrae un misterioso corpo alieno. L'essere misterioso si rivelerà essere una sorta di vegetale che si nutre di sangue, decimando i membri della base. L'incubo ha inizio. Uno dei più noti e riusciti esempi del cinema di fantascienza degli anni '50: attraverso il pretesto sci-fi, La cosa da un altro mondo cerca di farsi vettore di un messaggio sull'umanità e sul suo destino, in particolare su come il dogma della scienza e del progresso scientifico possano portare l'uomo alla sconfitta e non, come si potrebbe pensare, alla pacifica conquista della verità. Da un punto di vista squisitamente cinematografico, inoltre, la pellicola risulta ancora altamente godibile grazie a un sapiente (e paziente) uso del fuori campo (il mostro non si vede per più di metà film), che crea un efficace clima di attesa e tensione. Girato ufficialmente da Nyby, in realtà venne portato avanti in buona parte dal produttore Howard Hawks, regista non accreditato, a cui è stata spesso attribuita la vera paternità dell'opera. Kenneth Tobey, il protagonista, interrogato a riguardo, rispose: «Non credo che Nyby sapesse come si dirige un film. All'epoca, fece tutto Howard Hawks». Nel 1982 John Carpenter ne fece un remake di grande successo. Ottimi i contributi di Russell Harlan (fotografia), Dimitri Tiomkin (colonna sonora), Albert S. D'Agostino e John Hughes (scenografia).

IL GRANDE CIELO (1952)


1832, Far West. L'avventuriero Jim Deakins (Kirk Douglas) conosce il giovane Boone Cahill (Dewey Martin): i due fanno amicizia e si uniscono a un gruppo di esploratori francesi che risalgono il fiume Missouri per raggiungere un territorio dove poter comprare e vendere pelli liberamente. Entrambi, però, si innamoreranno della stessa ragazza, un'indiana di nome Teal Eye (Elizabeth Threatt). Il grande cielo è un western classico nella forma, ma tutt'altro che tradizionale nei contenuti. Caratterizzata da un notevole respiro epico, che fonde l'avventura pionieristica dei protagonisti con i grandi temi dell'amicizia, del coraggio e della lealtà, la pellicola è un “instant-classic” del genere che, come un bignami, racchiude in sé tutte le regole e le tematiche del mito della frontiera anni '50. Entro questa struttura iconografica di ampio respiro, Howard Hawks costruisce un'opera personale, dove i protagonisti bianchi stringono rapporti commerciali e amicizia con gli indiani. Il tema del triangolo amoroso, inoltre, è tipico de cinema del regista: come nei suoi diversi film d'avventura di due decenni prima, siamo di fronte a una cameratesca amicizia tra maschi, così sentita da far pensare a un sottotesto omosessuale, che viene rotta dall'arrivo di una donna. Tratto da un romanzo di A.B. Guthrie. Sceneggiatura a cura di Dudley Nichols. Due nomination agli Oscar: miglior attore non protagonista (Arthur Hunnicutt) e miglior fotografia (Russell Harlan).

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