News
Italians do it better: 10 titoli cult da riscoprire su Prime Video
Un'attitudine di cui bisogna farsi carico per poter godere appieno dell'offerta delle piattaforme streaming è... aver voglia di cercare. I cataloghi online non sono certo esaustivi e andare a scovare i titoli meno noti alla ricerca di una gioiello da vedere (o rivedere, perché no) è uno sport a volte faticoso.

Ma, una volta compiuta la missione quasi impossibile di non adagiarsi sui soliti film che ci vengono continuamente schiaffati in faccia, ci si trova di fronte a un'offerta molto più appagante di quanto ci si potesse aspettare. Andando a spulciare tra i titoli suggeriti più nascosti o tentando ricerche mirate all'interno di generi o, ancora, soffermandosi su autori di culto, ecco spuntare fuori dal catalogo Prime Video alcune chicche da non perdere del cinema italiano degli anni '50 e '60.

Un po' a sorpresa, accanto a indiscutibili maestri come Mario MonicelliMichelangelo Antonioni, fanno capolino alcuni grandi film di autori da recuperare come Valerio Zurlini, Mario Bava e Riccardo Freda, in un fantastico viaggio tra i generi che spazia dalla commedia all'horror.

10) I vampiri (Riccardo Freda, 1957)


Diretto da Riccardo Freda in collaborazione con Mario Bava (non accreditato), che si occupò di completare il film oltre che di curarne la fotografia, I vampiri non è, nonostante il titolo, una semplice storia dedicata a soprannaturali figure assetate di sangue: la vicenda incorpora infatti elementi narrativi polizieschi e noir, uniti a fantascienza dai risvolti cupi e dalle conseguenze orrorifiche. Il tema predominante, l'ossessiva ricerca e conservazione della bellezza e della giovinezza, è descritto come una forma di tossicodipendenza: una commistione di differenti generi, non sempre scorrevole, ma in grado di suggestionare grazie a un apparato visivo tipicamente gotico, fatto di cripte, laboratori che richiamano i luoghi degli esperimenti del dottor Frankenstein e castelli dagli interni tenebrosi, dove la presenza glaciale di Gianna Maria Canale cattura lo sguardo con una bellezza sinistra e rivelatrice di un mistero insondabile. Notevoli e avveniristiche le sequenze che sottolineano la trasformazione del volto della protagonista, impreziosite da effetti speciali realizzati dallo stesso Bava. Una rivisitazione in chiave moderna della leggenda di Erzsébet Báthory, sinistra e cupa anche se ben lontana dalla perfezione. Scritto da Freda con Piero Regnoli e Rijk Sijöstrom; musiche di Roman Vlad.

9) Italiani brava gente (Giuseppe De Santis, 1964)


Dramma bellico diretto da Giuseppe De Santis (anche sceneggiatore con Ennio De Concini, Augusto Frassinetti, Gian Domenico Giagni e Sergeij Smirnov), che tenta di rappresentare l'irrappresentabile: l'orrore di una guerra combattuta senza reale motivazione, con i protagonisti divisi tra istinti di umana empatia (la fraternizzazione con i “rivali” russi) e l'idiozia insita in ogni tipo di scontro. Il regista esprime vigorosamente la propria attitudine alla coscienza di classe, concentrandosi sulle singole caratterizzazioni e sul contrasto tra le varie personalità e tentando un'apologia del proletariato travolto dalla Storia: il risultato è volenteroso e appassionante, solo in minima parte appesantito da un certo didascalismo narrativo e da alcune cadute nella retorica populista. Notevoli, in ogni caso, la capacità di De Santis di rendere la durezza ma anche la poesia del paesaggio rurale russo, con slanci lirici di abbagliante bellezza, e l'utilizzo funzionale di un cast eterogeneo. Peter Falk è il tenente Salvioni; colonna sonora di Armando Trovajoli (candidata a un Nastro d'argento). Girato in varie location in Ucraina. Da vedere assolutamente nella versione integrale di 148 munuti, restaurata nel 2018 dal Centro Sperimentale di Cinematografia e da Cineteca Nazionale.

8) La signora senza camelie (Michelangelo Antonioni, 1953)


Da una sceneggiatura scritta insieme a Pier Maria Pasinetti, Suso Cecchi D'Amico e Citto Maselli, Michelangelo Antonioni ha tratto un melodramma ricco di spunti interessanti, purtoppo quasi del tutto dimenticato. Frutto di una travagliata realizzazione, dopo varie modifiche di scrittura e un importante cambio di interprete (il ruolo della protagonista fu rifiutato dalla Lollobrigida perché ritenuto offensivo nei confronti di alcuni personaggi reali del mondo del cinema), merita oggi di essere guardato con l'attenzione che forse non gli è stata mai riservata. Se alcuni personaggi, in particolare quelli maschili, risultano abbozzati e il tono generale del film ondeggia indeciso tra la satira di costume e il dramma interiore, l'affresco del mondo di celluloide offerto da Antonioni nell'intreccio metacinematografico non lascerà indifferenti gli amanti della Settima arte. Il sottobosco di cinematografari, produttori e starlette immortalato nel film regala un vivido spaccato dell'industria cinematografica degli anni '50, duramente accusata di cinismo, vacuità e ipocrisia. Grande prova di Lucia Bosé nei panni di Clara, attrice apprezzata dal pubblico più per la sua bellezza che per le sue qualità attoriali, che viene corteggiata dal produttore Gianni Franchi (Andrea Checchi): costretta a sposarsi e a sacrificare la sua carriera, Clara cercherà conforto nella relazione con il diplomatico Nardo Rusconi (Ivan Desny). Splendida, e densa di significato, la passeggiata dei due amanti tra le scenografie di cartapesta a Cinecittà.

7) Il segno di Venere (Dino Risi, 1955)


Agnese Tirabassi (Sophia Loren) e Cesira Colombo (Franca Valeri) sono due cugine molto diverse: la prima è di una bellezza prorompente che non può evitare i pretendenti, mentre la seconda, ormai non più una ragazzina, cerca in tutti i modi di sistemarsi. Presentato in concorso al Festival di Cannes, il film è una amara commedia dal cast stellare (oltre alle protagoniste ci sono anche Vittorio De Sica, Peppino De Filippo e un memorabile Alberto Sordi), capace di rappresentare al meglio un paese in costruzione, morale ed economica, proiettato verso il boom. Risi affida a Franca Valeri, a dir poco meravigliosa nella parte, il ruolo chiave di una donna costretta dalle sovrastrutture sociali a cercar marito in ogni occasione, contrapponendole un personaggio femminile (quasi) emancipato decisamente insolito rispetto al modello femminile standardizzato di certe pellicole italiane del periodo: un'abbagliante Loren, persino molestata sul tram. Una nazione di contraddizioni mostrata con garbo da Dino Risi, sicuramente limitato dagli scopi pubblicitari della Titanus, che comunque mostra un'acerba propensione all'introspezione e alla coraggiosa analisi sociale. Ritmo perfetto e almeno un pugno di battute passate agli annali, tra cui la mitica esclamazione «Ordinario!» di Franca Valeri al rozzo e maleducato di turno. Cesare Zavattini, uno dei padri del Neorealismo, ha collaborato alla sceneggiatura scritta da Risi, Franca Valeri, Ennio Flaiano e Edoardo Anton.

6) Peccato che sia una canaglia (Alessandro Blasetti, 1954)


Tratto dal racconto Il fantastico di Alberto Moravia, il film è ricordato dai più come il titolo che lanciò in maniera definitiva le carriere di Marcello Mastroianni, che qui interpreta Paolo, un onesto tassista a cui ne capitano di tutti i colori, e Sophia Loren, perfetta nei panni di Lina, bellissima e furbissima ragazza dedita a piccoli furti. Alessandro Blasetti confeziona sapientemente una commedia spassosa e dal ritmo decisamente elevato, in cui gli attori interagiscono con garbo ed efficacia grazie alla bella sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico, Alessandro Continenza ed Ennio Flaiano. Un'opera spensierata di puro intrattenimento che strizza l'occhio al grande pubblico (il lieto fine è scontato e non poteva di certo mancare), con il pregio di rimanere sincera e genuina. La mano di Blasetti, soprattutto nella direzione degli attori, è ammirevole e il susseguirsi delle situazioni è di una naturalezza davvero sublime. Menzione speciale per Vittorio De Sica, il quale ruba la scena con il suo carisma nell'interpretare il padre di Lina.

5) La donna del lago (Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, 1965)


Girato a Brunico e Bolsena, il primo lungometraggio diretto da Luigi Bazzoni, che firma la regia a quattro mani con Franco Rossellini, parte dai luoghi, in una desolata e non precisata località turistica in bassa stagione, per tratteggiare un elegante thriller psicologico che fa della tensione latente un notevole punto di forza. Il lago, piatto e misterioso, è metafora della opprimente cappa di perbenismo piccolo-borghese che ammanta tutto il paese e affoga nel silenzio i suoi delitti più sanguinosi. Ad eccezione del protagonista, un piuttosto scialbo Peter Baldwin, tutti decisamente in parte e di grande spessore i comprimari: il sempre straordinario Salvo Randone nei panni di un indecifrabile pater familias, il ferino Philippe Leroy e la disturbata Valentina Cortese in quelli dei suoi due figli, la bellissima Virna Lisi, giovane cameriera scomparsa dal grande fascino. Pur con qualche tempo morto di sceneggiatura e con un finale che sembra sfilacciarsi nella ricerca dell’effettismo, ha retto bene alla prova del tempo diventando negli anni un piccolo oggetto di culto. Di grande raffinatezza l’impianto estetico sostenuto dalla magnifica fotografia contrastata in bianco e nero di Leonida Barboni, che gioca con esposizione e saturazione per regalare immagini di potente impatto visivo e di taglio quasi espressionista. Musiche di Renzo Rossellini, scenografie di Luigi Scaccianoce e montaggio di Nino Baragli.

4) Il grande silenzio (Sergio Corbucci, 1968)




Violento e originale western di Sergio Corbucci, contemporaneo all'epopea di C'era una volta il west, firmato nel 1968 da Sergio Leone, e al tempo antitesi degli elementi tematici del cinema di quest'ultimo. Il West di Corbucci non è fatto di ampi spazi polverosi e battuti dal sole, ma si concentra sul gelo che cristallizza una piccola comunità di confine, sferzata da tormente di neve e dall'illegalità, tratteggiando una storia di derelitti e fuorilegge senza alcuna possibilità di salvezza o redenzione e intrisa di cinismo, nella quale il giustiziere Silenzio (un grande Jean-Louis Trintignant) è antieroe mutilato e fragile, vittima di un mondo spietato e senza regole, estremizzazione crepuscolare del pistolero solitario e solenne incarnato da Clint Eastwood. Il "grande silenzio" del titolo rappresenta sia la voce mancante del protagonista, sia il senso di morte che pervade i luoghi della narrazione, soffocati da sangue e neve, dopo la violenza che si consuma nel tragico e inaspettato finale. Un epilogo spiazzante che risolleva una pellicola dall'andamento talvolta lento, comunque inframmezzato da sequenze di notevole impatto spettacolare; un film non del tutto coerente, ma coraggioso. Perfida la caratterizzazione del personaggio Tigrero da parte Klaus Kinski. Corbucci girò un finale alternativo, più rassicurante e in linea con la tradizione western dell'happy ending, per la distribuzione della pellicola all'estero. Scritto dal regista con il fratello Bruno, Vittoriano Petrilli e Mario Amendola. Malinconica colonna sonora di Ennio Morricone.




Un ispirato Mario Bava (che dirige sotto lo pseudonimo di John Old) trova terreno fertile nell'adattare tre differenti opere letterarie e dà alla luce un parto trigemino ibrido tra thriller e horror gotico più classico. I tre episodi che compongono I tre volti della paura, eterogenei per tematiche, atmosfere e collocazione temporale, costituiscono differenti espressioni dell'abilità narrativa del regista. Ne Il telefono è velata la confusione tra vittima e carnefice, così come è suggerita ma palpabile l'attrazione sessuale tra le due protagoniste, mai evidenziata ma presente e concausa degli eventi, in un segmento claustrofobico di stampo thriller ispirato a un racconto di F.G. Snyder. I Wurdalak, tratto dallo scrittore russo Aleksej Konstantinovič Tolstoj, riprende le tematiche vampiresche care a Bava fin dall'esordio de La maschera del demonio (1960), con la costruzione di un racconto gotico in bilico tra superstizione popolare e orrore ancestrale, che narra dell'oscuro destino di una famiglia maledetta, impreziosito dai marcati contrasti cromatici cari al regista, da pennellate di oscurità e tenebre e dalla maschera orrorifica di un grande Boris Karloff (che incornicia il film con la sua carismatica presenza). La goccia d'acqua, adattamento di una novella di Anton Čechov, s'addentra nel terrore più grottesco, personificato dal volto deturpato e terrificante del cadavere ritornante, immerso in un'atmosfera opprimente e in interni saturi e soffocanti, scandito da una glaciale litania intonata dal semplice suono di gocce d'acqua che cadono e compongono un lamento funebre ed evocativo. Il risultato è disturbante, colto, raffinatissimo: a dispetto del tempo trascorso, un punto di riferimento per il genere orrorifico. Il titolo per la distribuzione inglese, Black Sabbath, ispirerà la scelta del nome della celebre band metal.

2) Estate violenta (Valerio Zurlini, 1959)



Luglio, 1943: Carlo Caremoli (Jean-Louis Trintignant), renitente alla leva nonostante suo padre Ettore (Enrico Maria Salerno) sia un notabile del partito fascista, passa l'estate a Riccione con un gruppo di amici e la fidanzata Rossana (Jacqueline Sassard). Si innamora, ricambiato, di una vedova di guerra, Roberta Parmesan (Eleonora Rossi Drago), la quale, nonostante le pressioni delle famiglia e la presenza di una figlia piccola, decide di scappare con lui dopo la caduta di Mussolini. Tra le tante possibili chiavi per raccontare i giorni a ridosso dell'Armistizio, Valerio Zurlini, che firma anche soggetto e sceneggiatura (con il contributo di Suso Cecchi d'Amico e Giorgio Prosperi), sceglie di puntare l'obbiettivo sulla famiglie perbene. L'operazione, potenzialmente rischiosa, diventa invece un appassionante ritratto dell'intero sbando di quella parte di nazione per la quale la guerra è, soprattutto, un “enorme inconveniente” che rende faticoso lo svago e riversa lutti e responsabilità sulla spalle di chi ambirebbe all'anonimato borghese. Al disperato e vuoto divertimento della prima parte, segue il bellissimo e articolato corteggiamento tra la “signora” e il “ragazzo”, che supera ogni retorica e trova momenti di alta poesia nella romantica (e disperata) sequenza sulla spiaggia davanti al Grand hotel di Riccione e nell'indimenticabile finale alla stazione sotto i colpi del fuoco nemico. Se il regime è visto, ovviamente, come il primo responsabile della follia militare, il regista, con sguardo sensibile, riesce anche con poche sequenze a far riflettere sulla codardia di chi si scoprì antifascista solo a giochi fatti, rivalutando anche la dignità di una scelta gregaria che Carlo compie in extremis. Una storia d'amore resa unica e irripetibile dall'accostamento tra lo smarrimento suggerito dal contesto storico e la purezza dei sentimenti in gioco.

1) Risate di gioia (Mario Monicelli, 1960)


Tratto da due racconti di Alberto Moravia (Risate di gioia e Ladri in chiesa), il film è un esempio di "commedia all'italiana" capace di raccontare la povertà e il disagio in modo scanzonato e divertente. La protagonista, interpretata magistralmente da una biondissima Anna Magnani, è l'emblema di un personaggio non in grado (per colpa della società) di emergere dalla propria situazione disastrata. Il sorriso non abbandona mai lo spettatore, così come l'amarezza. Uscito lo stesso anno de La dolce vita (1960), mostra una Roma diametralmente opposta, ma non per questo meno affascinante. Mario Monicelli ha anche il merito di riunire davanti alla macchina da presa, per la prima e ultima volta, Totò e la Magnani, strepitosi mattatori capaci di coniugare ironia e malinconia, incarnando idealmente un vecchio mondo che è destinato a finire nel dimenticatoio, sopraffatto da una società dominata dall'apparenza, cinica e sostanzialmente anaffettiva (rappresentata dal disincantato e spavaldo Lello, interpretato da Ben Gazzara): da antologia la scena d'avanspettacolo in cui Tortorella (Magnani) e Infortunio (Totò) cantano Geppina, vecchio pezzo interpretato dai due sui palcoscenici romani durante la guerra. Poco visto all'epoca, è diventato nel corso degli anni un piccolo grande oggetto di culto ed è stato giustamente rivalutato.

Categorie

Maximal Interjector
Browser non supportato.