Monica Vitti e Michelangelo Antonioni, l'eclisse dei sentimenti che cambiò la storia del cinema
04/02/2022
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Quando si parla di collaborazioni cinematografiche che trascendono i confini della pellicola, per diventare qualcosa di intimamante connesso al tessuto culturale di un Paese, con la mente è impossibile non andare a Monica Vitti e Michelangelo Antonioni. Lei, romana, attrice ancora aliena alle dinamiche del cinema drammatico, ma pronta a mettersi in gioco in un mondo cinematografico costruito su un immaginario molto spesso maschilista; lui, ferrarese, di sensibilità per certi versi femminile, documentarista e critico pronto a scrivere la storia del cinema come maestro di regia nella rappresentazione di sentimenti inesprimibili. Era il 1960, era l'inizio di una relazione artistica e sentimentale indimenticabile.
«A chi servono le cose belle, Claudia, quanto durano? Una volta avevano i secoli davanti, oggi al massimo dieci, venti anni, e poi» (L'avventura, 1960)
L'avventura (1960), La notte (1961), L'eclisse (1962) e Il deserto rosso (1964): il poker definitivo sul desiderio, perfettamente aderente clima di rottura dei codici del cinema classico dell'epoca, di andare a fondo nelle pieghe più intime e insondabili del malessere "moderno". Senza il volto di Monica Vitti e la sua incisiva espressività, anche la visione filmica di Antonioni di quegli anni, con buona probabilità, non avrebbe raggiunto la profondità che conosciamo. Un connubio perfetto, che avremmo rivisto sul grande schermo anche nel 1980, con il ben più trascurabile Il mistero di Oberwald.
L'AVVENTURA
- Claudia, ci sposiamo?
- Come ci sposiamo?
- Ci sposiamo io e te. Rispondi!
- Rispondi. Cosa ti rispondo: no, non ancora, non lo so, non ci penso nemmeno. In un momento come questo, ma perché me lo domandi?
- Mi guardi come se avessi detto una cosa pazzesca.
- Ma sei sicuro di volermi sposare? Proprio sicuro? Di voler sposare me?
- Se te lo chiedo?
- Già, ma perché tutto non è più semplice. Tu dici che voglio vedere tutto chiaro. Io vorrei essere lucida, vorrei avere le idee veramente chiare, e invece.
Durante una gita in barca a Lisca Bianca nelle Eolie, Anna (Lea Massari), inquieta ragazza di famiglia borghese, scompare nel nulla. La cercano invano sull'isola e nell'entroterra siciliano il fidanzato Sandro (Gabriele Ferzetti) e l'amica Claudia (Monica Vitti).
Capitolo iniziale della cosiddetta "Trilogia dell'incomunicabilità", segna il primo grande punto di svolta nella carriera di Michelangelo Antonioni. Lo sperimentalismo linguistico verso cui cominciava a tendere il cinema del maestro romagnolo sul finire degli anni '50 con questo film raggiunge un nuovo vertice. Il paesaggio diventa l'elemento chiave all'interno di uno stile che si articola attraverso una serie di negazioni: di una trama forte, di personaggi univoci, dei dialoghi (sempre più rarefatti in lunghi silenzi) e dei meccanismi stessi del giallo da cui prende avvio la narrazione. Tutto concorre a delineare uno spazio di crisi, un vuoto dei sentimenti in cui al mutare degli scenari ambientali si accompagna un tentativo di elaborazione interiore. È lo scenario, splendidamente colto dalla macchina da presa di Antonioni, a scandire i segmenti del film: la bellezza aspra e selvaggia dell'isola, gli spettrali avamposti della modernità nella campagna, il barocco della Cattedrale di Noto. Ed è nella composizione delle inquadrature che i personaggi sono collocati da Antonioni come infelici simulacri a cui è negata la possibilità di comprendere e di comprendersi. Una straordinaria esperienza sensoriale, tanto impegnativa quanto appagante. Prima collaborazione del regista con Monica Vitti, sua compagna di vita e musa ispiratrice lungo un decennio costellato da grandi esiti artistici. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra ed Elio Bartolini. Fotografia di Aldo Scavarda, musiche di Giovanni Fusco. Premio della Giuria al Festival di Cannes.
LA NOTTE

«Non ti ho dato niente. È strano come soltanto oggi mi rendo conto di quanto ciò che si dà agli altri finisca con il giovare a se stessi»
Milano. Giovanni (Marcello Mastroianni), intellettuale in crisi, e sua moglie Lidia (Jeanne Moreau) attraversano una interlocutoria giornata di coppia in una città svuotata dal caldo estivo. Dopo aver fatto visita a Tommaso (Bernhard Wicki), un amico in fin di vita ricoverato in ospedale, la noia li conduce prima in un elegante night club e poi, a notte fonda, nella villa di un industriale brianzolo, dove incontrano Valentina (Monica Vitti), la figlia dei padroni di casa, disturbata dalla loro stessa inquietudine.
Secondo capitolo della "Trilogia dell'incomunicabilità", realizzato a un anno di distanza da L'avventura (1960), sviluppa ed elabora in modo diverso quelle che si delineano come costanti nel cinema del maestro romagnolo. In una società svuotata di senso e privata di ogni capacità di comunicazione, solo alcune donne conservano una residua, e dolorosa, capacità di comprensione. Alla ricerca costante di un barlume di umanità, non lo trovano negli uomini, prigionieri di meschinità, superficialità, indifferenza ed egoismo. La poetica intellettuale di Antonioni si fa qui ancora più rarefatta e l'indagine dei sentimenti assume i tratti dell'apologo metafisico, affascinante nel suo abbandonarsi a soluzioni imperscrutabili. L'angoscia esistenziale diventa pensiero (e desiderio recondito) di morte, l'apparato visivo e sonoro raggiunge un formalismo di altissimo livello: qualche eccesso letterario nei dialoghi rischia di rendere rigido il naturale dipanarsi di una narrazione scarnificata ma, al tempo stesso, concettualmente ricchissima. Cinema d'autore snob e altezzoso, esemplare nel rifiutare ogni compromesso. Il clima di tensione emotiva è frutto anche degli screzi tra Jeanne Moreau e Monica Vitti (relegata a un ruolo di secondo piano) e i litigi sul set tra un esausto Mastroianni (che rimpiangeva il bonario rapporto con Fellini) e il regista ferrarese, al solito intransigente con i membri del cast. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano e Tonino Guerra. Magnifico bianconero di Gianni Di Venanzo e musiche jazz di Giorgio Gaslini. Orso d'oro al Festival di Berlino.
L'ECLISSE
- Cos'hai fatto ieri sera?
- Ero a cena con sette o otto miliardi.
- O con una squillo...
- E tu cos'hai fatto ieri sera?
- Chissa perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi forse non bisogna volersi bene... Comunque mi sono divertita. Ero con della gente simpatica.
- Li conosco?
- Non credo, non giocano in Borsa.
- A te non piace venire in Borsa...
In una deserta Roma estiva, Vittoria (Monica Vitti) abbandona il compagno Riccardo (Francisco Rabal) e cerca un disperato contatto umano con alcuni familiari e conoscenti. Tra questi Piero (Alain Delon), rampante agente di Borsa, con cui avvia una relazione.
Terzo e ultimo capitolo della cosiddetta "Trilogia dell'incomunicabilità", è il punto di arrivo di quel percorso di ricerca formale, tendente all'astrazione, che da Il grido (1957) in poi ha contraddistinto il cinema di Antonioni. Negli ultimi dieci minuti del film, i più sperimentali sul piano linguistico, si condensa l'esito estremo del discorso poetico sotteso a tutta la trilogia: l'asettico paesaggio urbano assurge a mondo interiore, rivendica un suo autonomo statuto ontologico e delinea in sé la plastica rappresentazione della aridità esistenziale dell'uomo contemporaneo. In questo desolato scenario, i due protagonisti – ormai ridotti a semplici elementi architettonici privati di qualsivoglia dimensione interiore – scompaiono di fronte a una macchina da presa che non può fare altro che cercarli, inutilmente, nei luoghi in cui li aveva inquadrati in precedenza. Se in Vittoria ritornano molti degli elementi caratteristici delle donne di Antonioni, in Piero si riscontrano alcuni tratti caratteriali (il febbrile dinamismo, il cinismo, l'arrivismo, il materialismo) che ne fanno una interessante variazione dei suoi tipici personaggi maschili, quasi tutti comunque negativi. Uno dei più fulgidi esempi di cinema italiano dal respiro internazionale, fondamentale nel contribuire a quella frattura artistica dei primi anni '60 che innovò la Settima arte proiettandola verso la modernità. Frutto di una maturità stilistica ormai pienamente raggiunta, è l'ultimo film in bianco e nero girato dal cineasta ferrarese, che per la quinta e ultima volta si avvalse della fotografia del maestro della luce Gianni Di Venanzo. Sceneggiatura di Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Elio Bartolini e Ottiero Ottieri. Musiche di Giovanni Fusco. Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes.
IL DESERTO ROSSO
- Aiutami! Aiutami, ti prego! Io ho paura di non farcela, ho paura.
- Non fare così, calmati. Perché hai paura? Di che cosa?
- Delle strade, delle fabbriche, dei colori, della gente, di tutto.
Giuliana (Monica Vitti), moglie di un industriale, è vittima di nevrosi e inquietudini esistenziali. Neanche la relazione con Corrado (Richard Harris), collega del marito Ugo (Carlo Chionetti), che in un primo momento sembra comprendere i suoi sentimenti, riesce a colmare il suo vuoto interiore.
Primo film a colori per Antonioni e ideale prolungamento della "Trilogia della incomunicabilità". Il nucleo tematico è ancora una volta quello della crisi delle relazioni affettive nella società contemporanea, nuovamente inscritto dentro la psicologia di un personaggio femminile interpretato da Monica Vitti. Il regista ferrarese si spinge ancora oltre nella rarefazione della sua poetica, orientata qui a rendere centrale il rapporto dialettico tra persone e paesaggio: in una plumbea Ravenna post-industriale, la disumanizzazione dei luoghi è connessa in maniera biunivoca all'aridità interiore dei personaggi. Il ritmo lentissimo e l'ostentata contemplazione dei "luoghi dell'anima", secondo un'esemplare visione autoriale, rendono la pellicola una delle opere più ostiche di tutta la carriera di Antonioni. Ma la ricerca formale raggiunge vette che non hanno paragoni nel panorama cinematografico italiano, e le sperimentazioni cromatiche operate dal regista e dal direttore della fotografia Carlo Di Palma sono entrate (a ragione) nella storia del cinema. Il tentativo di rendere nei dialoghi (di Antonioni e Tonino Guerra) l'emotività disturbata della protagonista, però, rischia di scivolare con qualche battuta nell'astruso, eccedendo in qualche stucchevole psicologismo. Leone d'oro e Premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia.