Hiroshima mon amour - Le vostre analisi!
19/10/2022

Al termine del webinar dedicato all'analisi di Hiroshima mon amour di  Alain Resnais abbiamo chiesto ai partecipanti di scrivere un'analisi relativa al film. Ecco le più interessanti:

Il silenzio di fronte ad un'offesa è un grido che fa tremare la terra
di Adele D'Ippolito

Resnais si occupava solo di documentari, nel 1955 ne aveva girato uno sui campi di concentramento (“Notte e nebbia”), quando gliene fu chiesto uno sul bombardamento di Hiroshima, non si limitò al documentario ma inserì una storia lì ambientata. La prima immagine è quella di due corpi che si abbracciano, la loro pelle cambia, a tratti è lucida, a tratti somiglia a quella bruciata dal calore dell'esplosione nucleare, a tratti, ancora, è polverosa, come quella di un corpo coperto di calcinacci. Sono due corpi comunque senza viso, che parlano ma non sappiamo niente di loro. È in pratica un'anticipazione del racconto: un rapporto fra due personaggi inserito in una situazione 'altra' che si capirà subito dopo quale sia con le immagini dei morti e dei superstiti dell'attacco atomico americano al Giappone. Si tratta di un'attrice francese e di un architetto giapponese. C'è una differenza abbastanza netta fra i protagonisti di questo racconto. La donna sulla quale è puntata l'attenzione del regista si aprirà con l'uomo…
Sappiamo che lavoro fanno ma non sapremo mai i loro nomi...

Rappresentano, probabilmente, un'occasione per contrapporre al senso di morte legato agli effetti della bomba nucleare un qualcosa di 'vibrante', di vivo. Resnais separa accuratamente Giappone e Francia (ma potrebbe essere un qualsiasi altro paese) lavorando con tecnici e pellicole giapponesi nelle riprese in Giappone e tecnici e pellicole kodak per le riprese a Never, città di origine della protagonista. L'architetto giapponese protagonista, un attore anche di teatro, ha acconsentito a parlare lui stesso il francese, questo rende il personaggio 'lagato' al suo essere giapponese. Non parla quasi mai. Colpiscono le affermazioni iniziali dell'attrice sul fatto che lei, avendo visitato il museo sul bombardamento, l'ospedale, ecc. conosca il dramma di Hiroshima, ma l'altro continua a ripeterle che in realtà lei non sa niente… cosa faceva lei, nell'agosto in cui sono cadute le bombe? Era a Parigi, il tempo era bello e lei era contenta perché era finita la guerra. Logicamente la situazione in Giappone era tutt'altra, ma con le prime chiarissime immagini a inizio film sulle lacerazioni e anomalie genetiche causate dalla bomba non serve dire altro. Il film non vuole dare risposte, lo spettatore conosce gli elementi e può trovarle. Lo stesso architetto giapponese non parlerà mai della sua esperienza personale.
La storia nella storia è il trauma che ha vissuto la francese in Francia, la sua storia d'amore con un tedesco, dell'esercito invasore della Francia. Certamente al di là della morte di lui, un rapporto vietato moralmente. Questo riprende la storia personale di Marguerite Duras, scelta dal regista per scrivere il soggetto e la sceneggiatura. Duras era nata e cresciuta in Indocina ed aveva avuto una relazione, malvista dai coloni bianchi, con un uomo cinese.
Resnais pare voglia dire che non è possibile documentare un avvenimento come il bombardamento di Hiroshima, cioè lo si può documentare, l'attrice sa cosa è successo, ma la conoscenza potrà essere solo parziale, l'ovest non ha potuto comprendere a pieno il fatto, anche se non ne è consapevole. Usare tecnici diversi secondo le riprese girate, o non voler dare una voce 'francese' di un doppiatore all'attore giapponese, ma chiedergli di palare direttamente lui in francese è una sorta di rispetto verso la loro 'giapponesità', lasciandola genuina e non filtrandola con strutture 'altre' rispetto alle loro.

Hiroshima mon amour ,1959 di Alain Resnais
di Letizia Piredda

“La grande contraddizione consiste nel fatto che  abbiamo il dovere e la volontà di ricordarci, ma siamo obbligati a dimenticare per vivere”, Alain Resnais

Due corpi in uno intrecciati in un abbraccio amoroso si ricoprono di una polvere fitta: è la cenere dei corpi di Hiroshima? O è la cenere del divenire, per cui ogni amore nel momento in cui nasce, porta già con sé inevitabilmente i germi dell’oblio e della distruzione?
Così inizia Hiroshima mon amour il film della rottura, della discontinuità, che ha operato una rivoluzione stilistica, senza precedenti, nel cinema degli anni ’60.
“Un film cubista” l’ha definito Eric Rohmer per la frammentazione che attua a livello di trama, di tempo e di spazio.
La trama non esiste: al suo posto c’è un lento emergere di ricordi, attraverso una voce off, quella di Emmanuelle Riva, un flusso di memoria soggettiva ininterrotto dove passato e presente si mescolano senza soluzione di continuità, e dove i luoghi e i suoni si staccano dal contesto a cui appartengono, formando molteplici asincronismi. 
Lei parla di Nevers, ma noi vediamo le immagini di Hiroshima; lei rievoca le immagini di Nevers, ma noi sentiamo i suoni di Hiroshima. Lei rievoca il suo primo amore tedesco, rivolgendosi al suo amante giapponese, e chiamandolo con il suo nome.
Passato e presente, Nevers e Hiroshima sono compresenti in un’unica continuità, resa sul piano stilistico da stacchi improvvisi, in sostituzione delle dissolvenze incrociate. 
Il passato si attualizza creando un dialogo con il presente, che diventa soggetto del passato: il grido di lei proviene dal passato, ma invade angosciosamente il presente: l’uomo che ha appena incontrato diventa il suo amante morto in guerra.
Nevers e Hiroshima, due traumi: individuale, quello di lei, universale, quello di lui, si incontrano in un tempo altro, in una memoria-mondo che si protrae fino al nostro presente. In un percorso costellato di ossimori visivi e narrativi, che iniziano già nel titolo del film e si ripetono fino allo spasimo:

Non hai visto niente, a Hiroshima. Niente.
Ho visto tutto. Tutto.

Emmanuelle Riva si perderà in uno scenario in rovina, avanzerà controcorrente come al rallentatore in un continuo oscillare tra il ricordo e l’oblio, tra il dolore del ricordo, la memoria fa sanguinare ci dirà Wenders in Falso movimento,1975 e la calma imperturbabile dell’oblio, che può cessare soltanto quando si scopre che il vero dolore è la consapevolezza che prima o poi si comincerà a dimenticare:

Come te, io conosco l’oblio
No, tu non sai dimenticare
Come te sono dotata di memoria e conosco l’oblio
No tu non sai ricordare

C’è il tentativo, impossibile, peraltro, di restare nell’istante passato e presente e il rifiuto che venga ricoperto da un’altra onda del tempo.
E ancora:

Tu mi uccidi, tu mi fai del bene

dice lei, esprimendo così la contraddizione del tempo e dell’assoluto dell’amore.

Approfittando della notte la donna ha rubato tempo al tempo e sembra esserne sfuggita: anche le immagini sembrano seguire la stessa intenzione: non vogliono cedere il posto, vogliono restare. Ma il tempo irrompe di nuovo quando lui la raggiunge nella sua stanza.
Il film si chiude su un processo di identificazione reciproca, reso possibile dall’incontro e dalla rivisitazione/rielaborazione dei due traumi:

“Hiroshima…è il tuo nome” (dice la donna)
“Il tuo è Nevers…Nevers in Francia” (dice l’uomo)

Finalmente lui e lei hanno un nome.

La memoria e l’oblio di Resnais ancora attuali

di Claudia Ronchi

Nelle settimane in cui Putin minacciava il mondo di essere pronto ad usare armi atomiche nella guerra contro l’Ukraina, avete mandato la mail del workshop su Hiroshima Mon Amour. Da che ho ricevuto la mail del corso (e da che mi sono iscritta), le occasioni di leggere articoli sulla bomba di Hiroshima si sono moltiplicate a dismisura. Pertanto, ho interpretato la situazione come un segnale del cosmo che mi suggeriva di fare una riflessione su queste coincidenze :).
Come prima cosa ho voluto riguardare il film e sono andata alla ricerca della versione in streaming (scoprendo che di fatto non c’è). Durante la ricerca, però, mi sono imbattuta in un articolo del sito de Il Cinema Ritrovato che ha ricostruito la genesi del film. Pare che, dopo aver visionato tutti i film realizzati sulla sciagura di Hiroshima, Alain Resnais abbia dichiarato: “[…] Non possiamo più fare un documentario su un soggetto simile. Ciò che farò è fare un film di finzione”.  Siamo nel 1959 quando esce Hiroshima Mon Amour, 14 anni dopo la tragedia che in “9 secondi” (dice elle/Emmanuelle Riva – 43 dicono i dati storici…ma ha importanza?) ha causato “200.000 morti e 80.000 feriti”. Quindi anche per Resnais, nel 1959, si era già detto tanto, forse troppo su quella follia omicida. E anche del suo film si è già detto tanto e troppo. Tuttavia, le circostanze attuali generano nuove considerazioni. 

Nel film sono due le cose che mi hanno colpito maggiormente: lui/Eiji Okada che incessantemente dice a elle/Emmanuelle Riva che non ha visto niente di Hiroshima; e le profetiche parole di elle/Emmanuelle Riva: “Io so, so tutto e so che ciò si ripeterà”.
Ho mal sopportato tutti i “Non hai visto niente a Hiroshima”, inizialmente da me interpretati come “cosa ne vuoi sapere tu che non sei giapponese, che non c’eri, che sei una straniera”. Poi, man mano che il film proseguiva, li ho percepiti come il tentativo di chi non solo vuole dimenticare, ma decide deliberatamente di negare l’accaduto. Un fatto così grave, così devastante la mente umana (di lui/Eiji Okada e la nostra) non lo può concepire: pensare che qualcuno, un altro essere umano uguale a tutti noi, possa aver scientemente deciso di sganciare una bomba capace di radere al suolo una città e tutti i suoi abitanti, è qualcosa a cui ci si rifiuta di credere. Quindi i “Non hai visto niente a Hiroshima….ti sei inventata tutto….” sono una sorta di difesa psicologica per non impazzire. Per lui/Eiji Okada non si tratta di dimenticare: non vuole neanche prendere in considerazione il dramma, collettivo e personale. 
È a questa rimozione che fa da controcanto elle/Emmanuelle Riva che dice: “Io ho avuto l’illusione davanti a Hiroshima di non poter mai più dimenticare”. La parola chiave qui è illusione. Le persone dimenticheranno e lei lo sa: “Io so, so tutto e so che ciò si ripeterà”. Si ripeterà perché la gente dimenticherà. Forse perché gli orrori si vogliono dimenticare, forse perché la vita che continua sarà più forte di qualsiasi tragedia, forse perché, come tanti lui/Eiji Okada, il mondo si rifiuta di credere a tanta barbarie. Quindi ci illudiamo pensando che il mondo imparerà da questo fatto, ma non sarà così.

Facendo un salto temporale di 63 anni e venendo ai giorni nostri, sentire quel “Io so, so tutto e so che ciò si ripeterà” è stato scioccante. In effetti quel “tutto” corre il rischio di ripetersi ma, ed è questo il principale cruccio di alcuni media, sembra che la gente non sia preoccupata. Il ricordo e l’oblio accompagnano le angosce dei due protagonisti del film di Resnais: senza il ricordo si rischia una nuova catastrofe nucleare, ma senza l’oblio non si può andare avanti. Ed è nel famoso “Tu mi uccidi, tu mi fai bene” che vedo sintetizzata questa dicotomia che, in qualche modo, per forza di cose, deve esistere se vogliamo salvarci da future tragedie: ricordarsi di quello che è stato e fare di quello che è stato il punto di forza per andare avanti. L’umanità è sicuramente andata avanti, dimenticando però quello che è stato. E non è stata un’azione di rimozione consapevole: semplicemente, con il progredire degli anni, non se ne è parlato più. 

Dopo decenni di oblio dei fatti di Hiroshima (e di, non dimentichiamoci, Nagasaki) i giornali tornano a mettere in prima pagina i rischi di una possibile escalation nucleare di fronte alla quale i cittadini sembrano fare spallucce. Tra le varie testate preoccupate della nostra leggerezza di fronte alla minaccia atomica di Putin, me ne sono capitate sottomano due: Robinson, allegato de La Repubblica e Internazionale di questa settimana.
Su Internazionale, Daniel Immerwahr, professore di storia alla Northwestern University, USA, accompagna i lettori in una profonda disanima degli eventi giapponesi e delle vicende a seguire. Illustra anche in modo molto pratico e razionale le ragioni della mancata sensibilità verso la minaccia atomica: il tema non è più stato trattato, poco alla volta stanno venendo a mancare gli ultimi superstiti in grado di raccontare gli orrori vissuti e, contrariamente all’altro orrore che ha straziato l’Europa - l’olocausto - che può contare su musei, memoriali e ricorrenze in tutto il mondo, Hiroshima non ha una industria della memoria al di fuori del Giappone. Per Immerwahr, l’assenza di memoria aumenta il rischio di un nuovo conflitto globale atomico. Quindi, l’illusione di elle/Emmanuelle Riva, di non poter mai più dimenticare, si rivela tale: le persone non hanno paura perché hanno dimenticato, rimosso, cancellato una cosa che ha fatto paura, proprio per il timore che possa succedere ancora.

L’assenza di paura è al centro anche di un pezzo di Stefano Massini su Robinson: siamo di fronte ad un nuovo rischio nucleare e non reagiamo. Perché? Perché nessuno scende in strada a protestare come negli anni 60? Perché nessuno si palesa davanti all’ambasciata russa per chiedere di fermare qualsiasi tentativo di distruzione di massa? Per Massini è l’assuefazione alla morte che ci rende asfittici di fronte alle minacce russe. Quindi, non solo abbiamo dimenticato, ma la tragedia è così compenetrata nelle nostre esistenze, che non la riconosciamo neanche più. Nel supplemento del quotidiano, il pezzo di Massini è supportato da altri due articoli: uno totalmente dedicato ai film sulla bomba di Hiroshima (che include, ovviamente, anche Hiroshima Mon Amour) e l’altro alle canzoni.  A testimonianza di una estesa produzione culturale per scacciare l’oblio e a beneficio della memoria. Amando tantissimo Massini, ho letto le sue tesi annuendo in continuazione, per rimanere poi un po’ delusa leggendo che - guarda un po’ il caso - la sua nuova opera teatrale che uscirà nel 2023, è una storia dedicata alla bomba atomica...tuttavia la mossa di marketing non ha minato la condivisione delle sue affermazioni.

Ritrovarmi, in pochi giorni, davanti a due long form di autori e giornali stupiti dal bieco menefreghismo dell’umanità, ha generato un ulteriore collegamento con un libro: How Modern Media Destroys Our Minds. Siamo costantemente collegati ad una fonte di notizie. Quando guardiamo un TG in tv o da device mobili, non solo c’è il giornalista che ci racconta i fatti, ma c’è un sottopancia fisso o mobile che presenta, nello stesso momento altre notizie: per i media non è previsto che ci concentriamo solo su una cosa. Si corre il rischio che ne sappiamo troppo, che ci appassioniamo, ci animiamo, magari protestiamo. Va bene essere informati, ma non troppo altrimenti si corre il rischio di non avere “spazio” per la nuova notizia in arrivo (meglio se tragica perché rende di più). Quindi, quelli che sono preoccupati della nostra inerzia di fronte ad una possibile nuova Hiroshima, sono gli stessi che pretendono che non ci focalizziamo troppo su un fatto. Gli stessi che hanno contribuito al raggiungimento di questo obiettivo, con il loro flusso torrenziale di “breaking news”, occupandoci la mente di informazioni, meglio quelle che tengono banco pochi giorni e poi passano nel dimenticatoio. Ecco, il dimenticatoio: lì dove giacciono anche le nostre reminiscenze della storia e dove c’è anche elle/Emmanuelle Riva che tenta di ricordarci che “Tutto ciò si ripeterà.”

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