Durante il workshop live dedicato al cinema di Woody Allen, abbiamo proposto ai partecipanti di scrivere un elaborato su un elemento emblematico del cinema di una delle personalità più influenti del panorama cinematografico contemporaneo. Ecco i lavori che hanno meritato la pubblicazione!
Lucia Cirillo
“INTERIORS”: UN FILM CON DENTRO QUALCOSA DI PIÙ
C’è qualcosa di più del semplice omaggio di un autore verso uno dei suoi maestri. In “Interiors” la venerazione di Allen per Bergman non si traduce soltanto nella mera citazione stilistica o nell’evocazione di immagini e atmosfere riconducibili al proprio maestro. In questo caso sarebbe fin troppo semplice riconoscerne gli omaggi fin dalle prime inquadrature: immagini statiche, crepuscolari, avvolte dai silenzi cupi e prolungati di protagonisti che si sottraggono all’esternazione di ogni disagio. C’è persino una scena, una delle primissime, in cui Diane Keaton appoggia le cinque dita alla finestra e non si può non associarla, per la maniera in cui è ripresa, ad una delle più iconiche scene di “Persona”. Il meno alleniamo (almeno in apparenza) dei film di Allen custodisce anche altro, che a sua volta pare accompagnarsi a un dettaglio quasi sorprendente. Ma procediamo per gradi.
In “Interiors” si racconta di tre figlie alle prese con una madre (Eva), psichicamente provata dall’abbandono del marito, dal temperamento rigido, con la mania del controllo, totalmente presa da se stessa e dalle proprie ambizioni. Le ricadute psicologiche derivanti dall’avere una madre simile saranno diverse per le tre donne. Joey, quella che tra le tre ha il rapporto più morboso e conflittuale con la madre, sarà centrale nel far emergere le contraddizioni e i conflitti più profondi della donna.
Gli uomini hanno un ruolo solo di contorno, volutamente poco definito e più che altro rivolto a stabilire i margini all’interno dei quali il flusso delle vicende si dipana. Per esempio, è proprio del marito di Eva la voce narrante dell’apertura del film di Allen e racconta proprio di un mistero mai svelato e poi del distacco inevitabile da una donna troppo fredda e confinata in schemi rigidi e troppo asfittici per un uomo semplice come lui.
Ed è esattamente questo anche l’incipit di “Sinfonia d’autunno”, il film in cui Bergman incontra per la prima, ed unica, volta l’altra grandissima icona svedese che porta il suo stesso cognome. Anche in quel caso l’incipit è offerto da un marito che parla di sua moglie (anche lei si chiama Eva!). Il suo tono è amorevole, ma identico è il senso di mistero irrisolto.
“Interiorios” e “Sinfonia d’autunno” hanno un tema centrale comune volto a scardinare uno dei paradigmi più intoccabili sulla maternità: il rapporto conflittuale madre-figlia, o meglio quello tra una madre che non voleva esserlo e una figlia che, forse a causa di questo, è incapace di diventarlo. In entrambi i film la complessità del tema ha la sua vera matrice proprio nella profondità intrinseca di un legame, inevitabilmente fatto anche di profondo amore, a dispetto dell’incapacità di gestirlo dei soggetti coinvolti. È questo ciò che accade a Eva e Joey (Allen) e a Charlotte e Eva (Bergman).
Altro tema decisivo in entrambi i film è la “paralisi”.
In “Interiors” si tratta di una paralisi creativa che affligge Renata, la figlia prediletta, quella che scrive poesie di successo, che ha un compagno che incontra l’approvazione di quella madre così attenta ai modi e alle apparenze. Renata vive ora una crisi non chiarita con quella sé bambina che giocava sempre sola, in perenne attesa di una madre che non riconosceva altri bisogni che i propri. Non riesce più a scrivere e neppure ad essere una buona compagna di un marito frustrato per un talento letterario che lui, invece, non ha mai posseduto.
In “Sinfonia d’autunno” la paralisi è stavolta reale, frutto di una crisi abbandonica subita per l’ennesima volta da Helena da parte di sua madre, un trauma così forte da diventare patologico fino a renderla inabile alla vita e costretta al costante accudimento di Eva.
In entrambi i film ci sono due donne dure, anaffettive, schematiche, madri senza esserlo. E soprattutto due donne incapaci di accettare di essere tutto questo e la realtà che hanno contribuito a determinare.
E poi, finalmente, arriva in entrambi i film il momento definitivo della confessione, la possibilità estrema di azzerare tutto e ripartire con un passo nuovo, perché tutto è ormai chiarito e si possono finalmente ridefinire intere geometrie comportamentali.
E così in “Sinfonia d’Autunno” Eva le parlerà di quel dolore mai attenuato di un aborto a cui la madre l’aveva costretta solo perché l’uomo che amava non le era gradito (anche Joey, ad un certo punto rinfaccerà la stessa identica cosa a Charlotte), del suo senso di inferiorità costante verso quella madre pianista così immensamente dotata. Le rivelerà del dolore per la povera sorella Helena. Ma nulla. Il senso di colpa, l’incapacità di riconoscersi al di fuori del proprio schermo protettivo è una barriera insormontabile. Charlotte non riuscirà a fare altro che andar via. Parlare non serve. Ma non è ancora finita. Eva le scriverà una lettera: si darà ancora quell’ultima occasione per dirle anche che la ama. Senza contraddittorio, senza rabbia. Solo perdono e amore. Il primo piano sullo splendido volto commosso della Bergman le darà ragione di quell’ultimo tentativo.
La Joey di “Interiors” farà lo stesso. Una sera, dopo che il padre ha sposato una donna completamente diversa da sua madre, confesserà a sua madre cose che pesano come macigni.
“Tu adori il talento […] che succede a quelli di noi che non sanno creare”. “C’è stata della cattiveria. C’è stata un’ostinazione calcolata. Al centro di una psiche malata c’è anche uno spirito malato. Ma ti voglio bene e ti perdono”.
Eva sente che ha davvero fallito. Non lo sopporta. C’è il mare ad attenderla per inghiottirla per sempre. Joey tenterà inutilmente di salvarla rischiando di affogare, trascinata a sua volta, se non fosse stata salvata dalla sua “seconda” madre, la colorata e accogliente nuova moglie di suo padre.
Anche stavolta non è ancora finita. Anche Joey troverà conforto e salvezza nella scrittura. In un diario chiuderà tutto il suo dolore. Poi il suo perdono. E alla fine il suo enorme amore per quella fragile madre.
“Interiors”: un film che contiene in sé un altro film. Un piccolo gioiello “à la Bergman” che riprende, nel congegno, nelle dinamiche, nelle atmosfere e persino in un nome chiave, “Sinfonia d’autunno”.
C’è qualcosa di mistico in questa specie di simbiosi, resa ancor più suggestiva, forse, da un dettaglio non trascurabile: sono entrambi film del 1978. Una coincidenza? Un omaggio dettato dall’entusiasmo? Affinità elettive? Chissà...
Veronica Curvietto
LA NEW YORK DI WOODY ALLEN
New York è una città che si ama o si odia; la New York di Woody Allen ti toglie il respiro. Il regista nasce a Brooklyn, uno dei cinque distretti di New York, ma Manhattan diventerà il luogo d’elezione per molti suoi film. In buona parte del suo cinema si trova l’atmosfera newyorchese, ma la massima espressione la abbiamo in “Io e Annie” e “Manhattan”. “Io e Annie”, film che vinse diversi Oscar e che lo consacrò definitivamente come autore, porta in scena una fantastica Diane Keaton e molte delle nevrosi di Allen. Tristezza e allegria si alternano e svelano in toto la poetica del regista: dialoghi brillanti ma anche cinici sull’amore e la vita. Il film è ricco di trovate creative e anche innovative, un omaggio al cinema come arte e al carattere della città, unica nel suo genere. Il film “Manhattan”, girato interamente in bianco e nero, è una vera e propria dichiarazione d’amore per la sua città. New York viene vista come qualcosa di seducente e malinconico e il b/n dà un “rimando alla realtà grigia e monotona, rispetto ai colori del mondo della fantasia”. La città diventa cosa viva, si antropomorfizza, quasi a creare un triangolo amoroso. Interessanti, in questo film, le strategie fotografiche e scenografiche: un gioco di linee orizzontali e verticali come supporto e ostacolo dei rapporti umani. La solitudine delle persone nella metropoli “prende vita anche tra le mura di casa”, isolandole pure nello schermo. “Manhattan” viene visto come una sorta di sequel di “Io e Annie”, per la presenza ingombrante e nostalgica della città. Nostalgia resa ancora più significativa grazie alla bellissima musica di George Gershwin.